La narrazione corrente delle trasformazioni digitali ha sempre un vago sapore soteriologico. La
tecnologia è àncora di salvezza e nel tramonto delle religioni tradizionali scienza e tecnica sono le
nuove divinità. Il ritorno dello spirituale ha in parte mitigato questo mito post moderno, per
sostituirlo in realtà con uno non meno inquietante, quello post umano che vede nell’ibridazione
uomo macchina la salvezza dell’umanità. La pandemia ha da un lato rafforzato questa idea, ma
paradossalmente l’ha forse fatta tramontare per sempre. Non solo la tecnologia non ci ha salvato dal
virus, ma neppure il digitale, proposto come panacea di ogni possibile male, ha davvero risolto i
problemi. Certamente esso ha rappresentato un formidabile aiuto se pensiamo alla didattica, alla
tenuta delle relazioni sociali, alla possibilità di condividere conoscenza e via discorrendo. Ma per
ciascuno di questi temi sono emersi altrettanti lati oscuri: la disparità sociale nella connessione e
nella capacità di usare gli strumenti, la delusione provata da un immateriale che acuisce l’assenza
del materiale affettivo, sino alla ricerca immatura di molte pubblicazioni scientifiche non
adeguatamente validate anche se prontamente condivise e via elencando. Che cosa può offrire a
questo stato di cose la visione credente e la nostra pastorale? Innanzitutto un elemento di verità che
tendiamo a scordare: il successo intramondano di ogni possibile progettualità non è
evangelicamente fondabile. La tradizione musulmana ci racconta che, essendo solo Dio perfetto,
nessun artefatto umano lo può essere, ecco perché, si dice, nel fabbricare tappeti si lascia sempre e
volutamente un nodo mal fatto, un difetto. La teologia cattolica va oltre. Anche la perfezione di Dio
in Cristo non ha avuto un successo totale nella realtà storica. Se infatti tentiamo di misurare
l’efficacia terrena della proposta di salvezza di Gesù essa è molto scarsa. Se in Cristo è riassunta
tutta la storia, nondimeno non è nella storia che possiamo trovare tutta la salvezza. La fecondità
dell’incarnazione – come ci ha insegnato Von Balthasar – è trans etica cioè si sottrae alla
registrazione contabile e statistica. L’efficacia di Cristo sconfina – seguiamo le parole del teologo di
Basilea – nell’inafferrabile, ed a maggior ragione l’efficacia dei suoi discepoli, la nostra. Dunque
quale indicazione possiamo offrire al mondo? Una sensazione di speranza e fiducia, ma permeata di
maggiore umiltà. La tecnologia continua a rappresentare una buona manifestazione del mandato
divino di amministrare il creato ed una buona manifestazione dell’immagine divina che noi siamo,
ma nella consapevolezza – che diventa un limite salutare sotto ogni prospettiva – che non può
garantire la sua totale conformità allo Spirito, e se anche lo facesse ciò non sarebbe sufficiente a
consegnare un qualunque programma completamente soddisfacente per il futuro. Per la pastorale
conviene ricordare che dobbiamo tenerci lontani dal mito di una possibile immediatezza dei risultati
e delle prospettive, da una teologia che cercando la verità sia certa di averla già in tasca e con essa
possa progettare scenari ecclesiali, sociali e pastorali. Al mondo possiamo offrire la nostra presenza
come compagni di viaggio cercando insieme cosa lo Spirito stia suscitando, senza la pretesa di
controllarlo e gestirlo, ma sapendo che le promesse di Gesù non sono utopia, ma certezza che trova
però compimento al di là della storia. Nel bisogno di costruire un futuro dopo la pandemia, o nelle
more della sua coda, il nostro sforzo sarà, anche su queste pagine, offrire una riflessione la più
ampia possibile su quanto sta accadendo, interpellando voci autorevoli nazionali ed internazionali,
nella consapevolezza che sia nell’ascolto reciproco rinvenire la voce di Colui che è, era e sempre
sarà, anche in questo tempo, anche in questi segni dei tempi. Buon anno pastorale, sociale,
accademico. Buon anno digitale.
L’Equipe per l’Apostolato Digitale