Uomo e tecnologia non sono entità separate. Se l’inizio della loro relazione si perde nella notte dei tempi, è solo di recente che la velocità delle loro trasformazioni ne ha fatto perdere la sincronizzazione, se mai c’è stata. Le trasformazioni tecnologiche sono oggi molto più veloci di quello che umanamente ci è possibile fare per poter stare al passo del loro cambiamento. E così, mentre loro accelerano, noi le inseguiamo tentando di coglierne le sempre nuove opportunità che ci offrono. Una tra queste è la possibilità di affidarci ad esse per svolgere compiti di memoria.
Chi di noi oggi perderebbe tempo a memorizzare un numero di telefono… e chi farebbe affidamento sulla propria memoria per ricordare che un evento si sta avvicinando? Praticità, comodità ed efficienza: ecco i motivi per cui deleghiamo una macchina a trattenere quelle informazioni che ci semplificano la vita. Il rischio però è quello di delegare memorie via via sempre più importanti, intime, affettive. Infatti, la nostra memoria non è fatta di dati neutri. Mentre una memoria digitale è solo un contenitore di dati, la memoria umana coinvolge anche un complesso sistema di emozioni. Quando fissiamo un ricordo o quando richiamiamo alla mente qualcosa, non avviene solo un trasferimento di dati.
Mentre ricordiamo ci emozioniamo e mentre ci emozioniamo ricordiamo. Ed è grazie a quelle emozioni e a quei ricordi che facciamo quel che facciamo e viviamo quel che viviamo. Ma non si tratta di dover scegliere se affidare o no un po’ della nostra memoria ad un contenitore di dati. Il punto è come vivere questa simbiosi tra noi e la macchina, affinché la nostra memoria non perda quelle tonalità affettive che le sono proprie. In altre parole: occorre ri-umanizzare quei dati trattenuti in una memoria digitale perché quando deleghiamo alla macchina un compito di memoria, perdiamo un ricordo, cioè un’occasione per «ripassare dal cuore». E questo non abbiamo proprio intenzione di perderlo.
Ivan ANDREIS