Pubblichiamo l’intervento del ministro Pisano al Meeting per l’Amicizia dei Popoli.
Buon pomeriggio,
saluto gli illustri relatori che hanno parlato prima di me, ne ho colto spunti molto interessanti e per questo vi ringrazio.
Ringrazio gli organizzatori del Meeting e la rivista Public Management per avermi invitato a questo appuntamento che si svolge come avviene ogni anno secondo una tradizione ormai consolidata, ma non esattamente come ogni anno: molti di noi sono collegati via Internet. Ci troviamo fisicamente distanti eppure accomunati da un desiderio di confrontare le nostre idee con quelle degli altri.
La considero la maniera migliore per mantenere, e anche sviluppare, i nostri rapporti sociali in questi tempi contrassegnati da una pandemia mondiale. Un fenomeno, non certo desiderato, che ha spinto ciascuno di noi, e innanzitutto le parti più avvedute ed esplorative delle nostre comunità, a cercare le vie possibili per essere di fatto insieme.
Non le vie ipoteticamente, astrattamente possibili, bensì le vie concretamente percorribili.
Il mio incarico nel governo è Ministro per l’Innovazione Tecnologica e la Digitalizzazione, ma deluderò chi potrebbe aspettarsi da questo intervento un’elegia acritica, una lode delle nuove tecnologie, di un modernismo privo di valori derivato da un’infatuazione un po’ ingenua o da una moda del momento.
Credo che l’Italia e l’Unione Europea della quale dobbiamo orgogliosamente sentirci un Paese socio fondatore debbano riprodurre qualcosa di simile a quello che voi fate al Meeting propugnando da sempre di fatto la massima tutela e il massimo rispetto dell’identità dei singoli con uno spirito di comunanza, di appartenenza collettiva tra chi si riconosce in un insieme di valori e li promuove. E’ evidente che non sempre, non su tutto, questi valori sono comuni tra tutti i componenti di comunità così estese: 60 milioni di italiani, 446 milioni di europei, nell’Ue 24 lingue ufficiali, filoni diversi di culture politiche e così via.
Ma dobbiamo consolidare sempre di più, e difendere, il nostro comune riconoscimento in alcuni valori fondamentali, tra i quali:
– la democrazia, che può essere aggiornata ma mai offesa ledendo lo Stato di diritto e snaturata,
– la salvaguardia della pace, la sostituzione del metodo del negoziato alla guerra – per quanto lungo ed estenuante,
– la tutela della dignità della persona umana,
– la solidarietà verso i deboli.
E’ dalla consapevolezza delle tradizioni, dal rispetto delle diversità e da una propensione a voler cambiare il futuro, così come l’hanno cambiato i padri costituenti in Italia e i padri fondatori dell’Europa, che dobbiamo affrontare la nuova fase.
Una fase di dolore – ricordo che sono più di 35 mila le vittime in Italia – e tuttavia anche occasione per migliorare ciò che possiamo fare meglio. Gli aiuti dell’Unione Europea del Recovery Fund sono un treno che non possiamo perdere e dobbiamo salirci per spostarci in una condizione migliore, più avanzata e con maggiori capacità produttive di quella nella quale siamo. Non si sale su un treno per stare fermi. E occorre esserne coscienti.
Comunque la si giudichi, la competizione internazionale esiste, è un dato di fatto. Ed è altrettanto un dato di fatto che noi italiani dobbiamo attrezzarci meglio se vogliamo che le generazioni attuali e quelle future possano beneficiare dei diritti sociali dei quali abbiamo beneficiato, progressivamente, da quando la ricostruzione ha buttato alle spalle l’orrore della Seconda guerra mondiale.
Che cosa significa, questo? Significa per esempio, per stare ai temi del nostro incontro, garantire l’accesso di tutti alle connessioni digitali e mettere al passo con i tempi la Pubblica amministrazione, un patrimonio che deve essere davvero pubblico e al servizio del pubblico.
Ha scritto saggiamente il Presidente Mattarella nel saluto al Meeting: <Il rilancio è possibile se, accanto al legittimo gioco degli interessi, si manifesta capacità progettuale, tendenza allo sviluppo integrale della persona>. Questo ci spetta, questo dobbiamo fare nei rispettivi ambiti di azione. Perché? Per un dovere imposto da terzi? No.
Perché è che così che possiamo vivere meglio e così potremo far vivere meglio i nostri figli, bene prezioso e indispensabile per la lunga esistenza di una società civile.
Malgrado le difficoltà, il Paese ha davanti a sé una grande opportunità di rilancio. Nel destinare all’Italia 209 miliardi di euro con il Recovery Fund, il 28% del totale del fondo europeo – ripeto: il 28%, non spiccioli – l’Unione Europea sta compiendo uno sforzo enorme. Lo fa per aiutarci a ridurre i danni economici della pandemia di Covid-19. Allo stesso tempo questa è l’occasione decisiva per rendere meno vulnerabili le nostre strutture produttive, formative e di servizi rispetto a una competizione internazionale tuttora affrontata da noi con ancora troppi strumenti, procedure e infrastrutture obsolete, inadatte al 2020. Dobbiamo davvero rendercene tutti conto, dalle forze politiche ai cittadini, dallo Stato centrale agli enti locali, dalla pubblica amministrazione ai privati. Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte lo ha definito giustamente un momento <storico>. Non possiamo permetterci di perderlo.
Partirei dall’evidenza di un problema che faccio presente da tempo e che tutti voi avrete potuto provare ancora di più in questi mesi e in questa estate: il nostro Paese non ha ancora una copertura adeguata per connettersi a Internet e usare i telefonini cellulari. Siamo in ritardo. <Pronto? Mi sentite?> <No, ti richiamo>. Anche questo è diventato, purtroppo, un sottofondo musicale ricorrente della nostra estate. Non siamo l’unico Paese, succede anche in Stati con Prodotto interno lordo maggiore del nostro, ma dobbiamo domandarci: quanto lavoro, quanto reddito perdiamo in queste condizioni inadatte al 2020? Quanto questo motivo contribuisce a renderci meno attrattivi di altri nei confronti di investimenti stranieri?
Non può essere lo Stato il solo soggetto in grado di risolvere il problema. Parliamo di un campo nel quale, in un’economia di mercato, non possono non avere ruolo i privati. Però il punto è: quanta consapevolezza esiste in tante sedi decisionali che questo problema va risolto subito? La difficoltà di connettersi non è forse una delle concause di un aumento del divario sociale tra benestanti e non benestanti degli ultimi mesi? E l’aumento di questo divario non è ingiusto, nei fatti brutale?
La connessione permette l’accesso alla rete internet, diminuisce le distanze fisiche, ci dà la possibilità di accedere a nuovi saperi, di farci lavorare a distanza e far studiare i nostri figli, di usufruire di servizi e di nuove opportunità di lavoro. L’infrastruttura di connessione del nostro Paese deve essere sicura e a <prova di futuro>, il che vuol dire non in partenza obsoleta, non destinata a risultare presto tecnicamente superata. E soprattutto vuol dire facile da mantenere e aggiornare ogni volta che ci sarà “un upgrade” un miglioramento nelle tecnologia da introdurre.
Una connessione del genere incentiverebbe aziende e professionisti stranieri a scegliere l’Italia non solo per la qualità della vita. Anche per la qualità della sua infrastruttura tecnologica.
La realizzazione di questo obiettivo, connettere meglio le varie parti dell’Italia, richiede lungimiranza e un impegno politico forte, non effimero: perché si tratta di un progetto che dovrà essere perseguito con convinzione anche negli anni a venire, al di la’ dell’alternanza politica alla guida del Paese.
Serve, è il sale di una democrazia la dialettica tra maggioranza parlamentare e opposizione . Ma dobbiamo trovare e accentuare la ricerca di motivi di convergenza su progetti che sono nell’interesse di tutti: rinvigorire il settore delle telecomunicazioni italiane è uno di questi. L’aiuto che l’Unione Europea ci dà, a mio avviso, deve avere tra i suoi principali campi di intervento quello di un potenziamento delle nostre infrastrutture tecnologiche. Ci serve e ci è utile a tutti.
Occorre favorire un punto di incontro tra il diritto di connessione per la collettività e l’opportunità per le aziende di realizzare profitti, senza mai lasciare che i secondi annullino il primo o lo compromettano violando o ledendo riservatezza dei dati, tutela dei minori e dei deboli, distinzione tra pubblicità e informazione.
I vantaggi si potranno vedere se pubblico e privato avranno insieme il coraggio di trovare una sintesi, velocemente, per il futuro del nostro Paese e non a beneficio di singoli soggetti nel breve periodo.
Come diceva la professoressa Elisa Pintus < il pubblico deve essere attento agli interessi di tutti gli stakeholder coinvolti, creando metodi di partecipazione efficaci, comprendendone gli interessi dalla sua visione privilegiata>.
Tuttavia non basta questo. Dotare l’Italia di una maggiore connessione senza adeguati servizi è come allacciare una casa alla rete dell’energia elettrica senza fornirle però lampadine: la corrente c’è, ma senza lampadine servirà a poco.
Molti di voi hanno sentito parlare di <rete unica>. Per quanto importante, la realizzazione di una rete unica per le nostre telecomunicazioni non è di per sé sufficiente. Come sottolinea la professoressa Carrozza : andrebbe integrata fin da ora con un’infrastruttura strategica altrettanto indispensabile per lo sviluppo dei servizi. Questa infrastruttura deve consistere nell’insieme dei contenitori nei quali conserviamo i nostri dati – i “data center in cloud” – e che garantiscono il funzionamento continuo di servizi fondamentali: dai sistemi digitali che permettono ad un ospedale di funzionare, alle memorie collegate ai nostri telefonini nelle quali archiviamo foto, messaggi, informazioni che ci riguardano.
Il Cloud – la “nuvola” – archivia, rende disponibili e potenzialmente analizza i dati digitali di miliardi di dispositivi in rete delle nostre aziende e dei nostri cittadini. Rappresenta oggi la sfida più importante per la digitalizzazione del Paese. Perché non solo abilita all’utilizzo dei servizi a distanza, ma perchè è la base per lo sviluppo di nuove tecnologie delle quali tanto si parla: come l’intelligenza artificiale, la robotica e la famosa manifattura 4.0.
Il progetto di puntare a rafforzare un sistema di cloud europeo e un sistema di cloud italiano è nuovo e non e mai stato avviato. Perché?
Perché necessita di una forte volontà politica che ne persegua la costruzione e ha bisogno di un consistente sostegno economico. I finanziamenti del Recovery Fund possono darci questo sostegno economico.
A noi tocca metterci la volontà, l’impegno, la lungimiranza. E, se vogliamo bene all’Italia e a noi stessi, ciò spetta non soltanto al governo in carica oggi. Spetta alla maggioranza, ma anche all’opposizione, con tutti i suoi contributi critici e i suoi stimoli.
Se si vuole capire un fenomeno bisogna analizzare i dati, come sottolineava il dott Fiorentino.
Se si è tenuti a erogare servizi bisogna gestirne i dati. E il proliferare di dati che oggi possono essere raccolti aumenta a un ritmo impetuoso che secondo stime di settore nel 2025, rispetto al 2018, sarà pari al 530% l’aumento del volume dei dati in Europa .
Chi beneficerà di una montagna di informazioni del genere? I Paesi e le aziende in grado di raccogliere i dati, di conservarli, di proteggerne la veridicità, ma anche produrli, analizzarli e infine condividerli in modo sicuro. Dobbiamo essere un’avanguardia di quei Paesi. Non prefiggerci questo compito ridurrà la nostra autonomia. La sovranità del popolo, l’efficacia della nostra democrazia non sta in un irrealistico ritorno all’indietro.
Come ha sottolineato il dott. Pelligra
Dipende dalla nostra capacità di saper affrontare non solo il futuro, come spesso si dice. Dipende dalla capacità di affrontare il presente.
Senza ritardi. Senza escludere queste questioni importanti dal nostro raggio visuale e dalle urgenze del dibattito pubblico.
Più nel dettaglio. Va superata la fase nella quale le strutture pubbliche investono soldi per appoggiare i propri dati ad appositi e circoscritti data-center velleitariamente indipendenti che ostacolano il lavoro a distanza e la messa a fattor comune di dati utili. Ma perchè? Ma perchè reiteriamo sempre lo stesso modello tecnologico e di approccio della pubblica amministrazione da 40 anni .
Va superata la fase di investimenti pubblici non coordinati da politiche comuni, da strategie, che talvolta hanno portato a creare nella raccolta dei dati pubblici vasi non comunicanti, un insieme di vicoli ciechi invece che di reti, sforzandosi di occupare spazi più che avviare processi. Non spendo tempo nel dire: è stata colpa di questo o di quell’altro. Dico, e spero che saremo in molti a dire: non deve essere più così.
Esistono alcuni data center statali che richiedono autonomia per particolari esigenze di sicurezza. Questo però non comporta la necessità di rendere eterna una incomunicabilità tra tanti rami della Pubblica amministrazione. Né deve comportare investimenti sporadici ed estranei a un contesto, non commisurati alla effettiva necessità di questa o quella amministrazione.
Oggi noi in Italia utilizziamo cloud esterni all’Unione Europea per il 60% del nostro fabbisogno. Se non invertiamo presto la rotta il nostro Paese rischia di dipendere tecnologicamente da un oligopolio di big tech straniere e dalle regole che i Paesi, nei quali queste collocano i propri data-center, decideranno in futuro. Lo dico perché è un problema da non nasconderci. Non perché io proponga in materia una concezione ideologica. Dico anzi, perché occorre fare i conti con la realtà, che al momento per ragioni tecniche non possiamo rinunciare a servirci di data-center in cloud collocati altrove. Tuttavia dobbiamo fin da adesso utilizzare al meglio le infrastrutture sicure a disposizione del Paese, spingere a favore di un cloud nazionale in sinergia con l’Unione Europea in sinergia con il progetto Gaia X: una federazione di cloud di soggetti privati al quale stiamo partecipando con le migliori aziende del nostro territorio.
Qualcuno potrà domandare: e il governo che fa? Il governo fa. Nel decreto <Semplificazione e innovazione digitale> abbiamo compiuto un passo in questa direzione e promosso lo sviluppo, coordinato dalla Presidenza del Consiglio, di un’infrastruttura cloud nazionale ad alta affidabilità. Nello stesso decreto abbiamo inserito per i vari rami della Pubblica amministrazione l’obbligo di sviluppare i rispettivi servizi in cloud, dunque non in rispettivi data center chiusi. Sono grata al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e all’intero Consiglio dei Ministri di aver condiviso questa mia proposta. Adesso dobbiamo impegnarci a più livelli nella pubblica amministrazione e nella politica per raggiungere gli obiettivi.
Nel vari mesi e decreti che si sono succeduti abbiamo messo le basi per un aggiornamento consistente e un riordino normativo della Pubblica amministrazione come sottolineava il professor Bernardo Mattarella nel suo importante intervento. Dal 28 febbraio 2021 attraverso l’identità digitale (Spid) i cittadini potranno accedere con un credenziali uniche e sicure a tutti i servizi della Pubblica Amministrazione.
Servizi come quello di iscrivere i propri figli a scuola o di pagare le tasse o ricevere bonus I pagamenti verso la pubblica amministrazione e i bonus verso i cittadini saranno obbligatoriamente digitali. Così come digitale sarà la comunicazione tra cittadino e pubblica amministrazione.
Dal 28 febbraio gli uffici pubblici avranno anche l’obbligo di iniziare la migrazione dei rispettivi servizi all’interno di una sola applicazione a portata di smartphone, l’applicazione <IO>.
Le amministrazioni non devono essere lasciate sole in questa trasformazione difficile (soprattutto le amministrazioni piccole sotto i 5000 abitanti, come diceva l’avvocato Belisario, per le quali abbiamo un occhio di riguardo). Il piano triennale della digitalizzazione dell’Agenzia per l’Italia digitale (Agid) che abbiamo appena pubblicato, è uno strumento operativo per accompagnarle negli indirizzi che devono seguire e nelle azioni che dovranno mettere in campo. Nel decreto legge <Semplificazione e innovazione digitale> abbiamo inserito svariate norme utili in questo senso come richiesto da Alberto Gambescia: da un codice di condotta tecnologica per definire le tecnologie da utilizzare per la creazione dei servizi digitali con gli stessi livelli di prestazione e gli stessi standard, alla possibilità di assumere esperti per la pubblica amministrazione.
Stiamo creando una squadra di esperti, nel Dipartimento che guido, incaricata di seguire la trasformazione digitale delle strutture.
Se questa trasformazione vi sembra più facile del costruire le infrastrutture, credetemi: è solo un’impressione. Ed è fuorviante. perchè dietro questa trasformazione c’e’ un cambio culturale, come ha ben detto Gianni Riotta.
Per adeguare di più al digitale la Pubblica amministrazione abbiamo bisogno di assumere presto personale che abbia già le competenze necessarie per gestire processi di trasformazione digitale. Anche personale di 40, 50, 60 anni che abbia queste qualità. I giovani neolaureati sono utili, ma perderemmo tempo prezioso nell’inserire solo neolaureati da formare per poi farli lavorare su progetti così complicati. Se non si dispone a sufficienza di competenze maturate con l’esperienza, competenze utili per guidare progetti così complessi di trasformazione tecnologica, competenze utili nel guidare e formare professionalmente le nuove leve, non andremo lontani. Non servono soltanto lauree, come ha osservato in maniera efficace la professoressa Severino nel suo intervento ricco di spunti preziosi. Serve saper fare. serve insegnare a Saper fare Nella Pubblica amministrazione vanno attratti i talenti del <fare digitale>.
Vogliamo iniziare a superare i nostri limiti? Abbiamo intenzione di costruire il futuro?
Ripartiamo dai dati di fatto. <Il debito creato con la pandemia è senza precedenti e dovrà essere ripagato principalmente da coloro che sono oggi i giovani. E’ nostro dovere far sì che abbiano tutti gli strumenti per farlo>, ha fatto presente qui al Meeting Mario Draghi, economista autorevole, già presidente della Banca centrale europea. Uno di questi strumenti deve di certo essere una capacità adeguata di lavorare con nuove tecnologie.
C’è un testo il cui titolo in apparenza può sembrarci portare lontano dal nostro tema: “Scuola di religione”. Come molti di voi sanno, è un libro di Don Giussani. Scriveva Don Giussani:
<Immaginiamo, per esempio un ragazzo che, per vari motivi, non ami l’aritmetica e perciò non si sia mai impegnato a studiarla. Egli non sarà in grado di capire di avere una capacità almeno normale in quel campo. Se, al contrario, incomincia ad impegnarsi, potrebbe addirittura scoprire di avere una capacità al di sopra della norma. Proprio perché solo l’azione scopre il talento, il fattore umano”. ( Dal libro “Scuola di religione”, capitolo “Il senso religioso”, pagina 7) .
Ecco. In Italia dobbiamo fare di più per coltivare, per sprigionare, per mettere a frutto il talento tecnico e scientifico dei nostri giovani.
Dobbiamo fare di più per impedire che questo talento trovi intasati da abitudini desuete i canali per il suo impiego. I finanziamenti europei del Recovery Fund dovranno servire anche a questo. A intervenire su formazione dei giovani e aggiornamento professionale degli adulti.
E’ un treno sta per passare. Non possiamo stare a guardare. Nell’interesse nostro. Nel loro. nell’interesse delle giovani generazioni e di quelle future.
(fonte profilo Fb del ministro)