Presentiamo parte della relazione che Giorgio Ceragioli aveva tenuto al convegno “Cultura tecnologica, fede e coscienza cristiana” nel marzo del 1986
Il rifiuto della tecnologia viene da lontano, dall’otium romano, dal lavoro manuale affidato agli schiavi, dalla non comprensione (dovuta ai lenti ritmi di sviluppo tecnologico passati) che per fare bisogna studiare, sapere, e che per sapere può essere utile fare, sperimentare.
Oggi, tuttavia, esiste una componente, importante, dei nostri intellettuali che si rifà a una vera e propria cultura tecnologica e la cultura tecnologica è un filone compresente ad altri: essa, fra l’altro, condiziona duramente anche gli altri filoni, l’arte, la letteratura, ecc. La necessità dell’incontro nasce, in buona parte, dall’incapacità degli altri filoni di tenere il passo dell’evolversi della cultura tecnologica, incapacità che non tanto deve chiedere alla cultura tecnologica di arrestarsi, ma che deve piuttosto chiedere agli altri filoni di «rimboccarsi le maniche» e lavorare. Lavorare:
- non per frenare ma per gestire,
- non per condannare ma per proporre, adeguandosi ai diversi segni dei tempi,
- giudicando non su vecchi parametri ma nella novità attuale della creazione,
- accettando, cioè, questa nuova creazione di Dio attraverso gli uomini per cercare di «vedere e giudicare se è bene»,
Vi è la necessità di un confronto-incontro fra cultura e fede, per evitare le alienazioni reciproche, all’interno dell’unico uomo. La fede come alimento o inserimento in strati culturali diversi: il «sei polvere e in polvere ritornerai», l’impegno solidaristico come poli quasi estremi per un confronto reale fra cultura tecnologica e fede.
I diversi comportamenti, derivabili da una meditazione sulla fede, possono tutti essere utilizzati per animare, per «ibridarsi» con una cultura tecnologica perché ne possono chiarire e proporre sfaccettature diverse. È l’atteggiamento propositivo che interessa: atteggiamento che, per essere propositivo, sarà anche critico, di attenzione, di prudenza, ma sempre per costruire, per realizzare un disegno divino.
Si possono individuare alcune caratteristiche di una cultura tecnologica:
– l’idea di realizzazione progettuale
– la spinta verso il dominio sulle cose
– la creatività
– l’alto grado di responsabilizzazione personale e della società nel suo insieme
– la contestualizzazione dell’intervento
– l’analisi come premessa alla sintesi.
La “responsabilità” (parola chiave nell’analisi delle nuove tecnologie) è un fardello molto pesante, più pesante, forse, della fatica che stiamo per vincere definitivamente, tanto che abbiamo iniziato a “farla” solo per stare in salute o per sport. È, tuttavia, un compito carico di una grande componente umanizzante,
- ricco di quel desiderio di ricerca, del nuovo, dello sconosciuto che è parte costituente delle profonde motivazioni all’agire di molti uomini;
- impastato, nell’essenza, dell’essenza stessa dell’uomo che può essere posta nella sua libertà di fare il bene o il male.
Fondamentale, perciò, una profonda meditazione e formazione religiosa, non solo sullo strumento tecnologico, ma anche sull’uomo stesso perché non si lasci sopraffare dal suo strumento.
Vi sono dei pericoli che possono portarci sull’orlo dell’abisso:
- il pericolo del mancato controllo dei propri strumenti nelle loro non approfondite implicazioni secondarie (disoccupazione, ecc.)
- il pericolo di uno squilibrio psicologico dovuto allo squilibrio fra tecnologia e morale, spiritualità, amore, rispetto dell’uomo
- il pericolo della catastrofe umana attraverso il mancato controllo della dinamica ecologica personale, societaria, ambientale
- il pericolo dell’abisso genetico
- il pericolo dell’abisso atomico.
Su questi pericoli molti parlano e mettono in guardia, mentre altri procedono inconsapevoli e incoscienti. Credo siano da evitare ambedue gli atteggiamenti: di ostilità alla tecnologia o di cecità, ed anche quello di “imparzialità”, per lo meno nel momento del giudizio di accettabilità. Credo, cioè, che la tecnologia debba essere accettata come fatto positivo, come lo è la libertà, anche se possono essere usate male.
Un lungo cammino deve essere fatto; da un’umanità che ha sempre usato la violenza come strumento per sopravvivere, per esistere, per difendersi dagli altri, da un’umanità conscia che le catastrofi sono in sé stessa, prima che nelle cose che la circondano.
Giorgio CERAGIOLI