È incredibile pensare ad un mondo più interconnesso e più solo di quello in cui oggi viviamo. Il mio professore delle medie diceva sempre che il vero problema dell’umanità è dare ai più bisognosi i pesci e non le canne da pesca. Per quanto riguarda il digitale le cose stanno proprio così: è lo squalo che ci ha mangiato, ma solo perché non abbiamo imparato a nuotare.
La vera difficoltà risiede, forse, nella carenza di educazione all’altro che caratterizza le nostre vite. Ma educare all’altro cosa vuol dire? Significa essere persona e, poi, singolo. Essere in grado di rapportarsi al mondo con una capacità di comprensione della comunità che, in quando munus, è luogo di interscambio dove ciascuno regala e riceve, dove nessuno è protagonista. In un mondo in cui “condividere” sembra essere la parola d’ordine, a mancare è quella condivisione volta a creare uno spazio comune in cui porre le nostre debolezze tutte umane.
La bruttezza, il silenzio, l’altruismo, il misurarsi, il sé: ecco le paure più grandi dell’animale social(e). Paure che restano irrisolte nel grande abisso del digitale, danneggiandolo irreparabilmente. Come possiamo risolvere tanti timori? Come sempre: affrontandoli.
Educare al brutto. Ci creiamo questi profili felici, eppure la vita non è tutta lì. Oscuriamo la sofferenza. Al contrario, dobbiamo imparare ad afferrare la bruttezza tipica del mondo, accoglierla e conviverci. Non siamo perfetti, siamo solamente esseri umani che cercano di coprirsi i brufoli col fondotinta. Ma ogni tanto sarebbe giusto lasciare i trucchi nella trousse.
Educare all’ascolto. Ascoltare gli altri, ascoltare se stessi, ascoltare il silenzio. La bussola della nostra persona deve affrontare la propria sordità. Imparare a non sovrastare il prossimo, evitare quella mala informazione che crea un pubblico incapace di cogliere la preziosità del silenzio. In un mondo in cui tutti hanno qualcosa da dire, forse sarebbe giusto saper ascoltare.
Educare al dono che non chiede nulla in cambio. Si dice che questa sia una cosa che solo i genitori sappiano provare, io non sono d’accordo. Sono convinta che rappresenti una qualità comune a tutti coloro che capaci di amare davvero. E non credo che si debba fare figli per saper amare. Il mondo è un posto pieno d’amore, basta solo avere fiducia. E se amare vuol dire fidarsi, dobbiamo essere pronti a dare senza chiedere nulla in cambio, proprio come la fiducia ha il coraggio di operare nei nostri riguardi.
Educare al confronto. Se un giorno partecipassi ad un concorso di bruttezza, alla fatidica domanda “Cosa faresti per salvare il mondo?”, saprei con certezza come rispondere: eliminerei l’invidia. Credo che l’invidia rappresenti una condanna per chi la prova, prima ancora che essere un fardello per chi la subisce. Essere invidiosi è ciò che nasconde a noi stessi la nostra persona, la nostra umanità, ci rende incapaci di misurarci con gli altri. Dovremmo imparare dai velocisti: i più forti nelle corsie centrali per spingere ciascuno a dare il meglio di sé.
Educare alla solitudine. Sembra che più ci sforziamo nel creare mondi nuovi, più siamo incapaci di stare da soli, abbiamo paura di noi stessi. Riscoprire il nostro essere, hic et nunc, vorrebbe dire essere più trasparenti, più autentici, più persone. Renderci conto che il sé viene prima del digitale e siamo noi a doverne fare buon uso, per rispettare la nostra integrità, per rimanere fedeli alla nostra autenticità.
Abbiamo a disposizione un mondo facile e accessibile che ci aiuta come uomini ad evolverci, e, soprattutto, come persone ad essere più umani. Ma questo mondo non sarà mai veramente facile e accessibile finché non saremo in grado di migliorarci, preservando le nostre debolezze. Una promessa che dovremmo rispettare per curarci dalla sordità dell’avarizia. Una promessa in cui sarebbe possibile aver fiducia se solo avessimo il coraggio di imitare i pescatori: ascoltare il mare e stare in silenzio, per imparare a condurre la canna da pesca dell’umanità.
Giulia BRUNO, tirocinante SPES