Continuamente studi medico scientifici vengono pubblicati su riviste specializzate. Il processo necessita molto tempo: elaborare una ricerca approfondita, fatta di ipotesi, test, sperimentazioni e raccolta dati, richiede perfino alcuni anni. Inoltre, a lavoro terminato, gli esiti sono sottoposti, dalle riviste stesse, alla cosiddetta “peer review”, una revisione fatta da specialisti competenti, ricevendo così una sorta di approvazione alla pubblicazione.
Da qualche anno inoltre, vi sono piattaforme nate con lo scopo di ampliare il dibattito tecnico scientifico tra esperti prima che i vari studi siano terminati e revisionati. Questi vengono chiamati “preprint“. Dato il momento storico che stiamo vivendo, da quando la pandemia ha colpito la popolazione, c’è stato un forte incremento delle pubblicazioni sulle suddette piattaforme, soprattutto per quanto riguarda possibili cure al COVID-19 e ciò si può attribuire alla mancanza di tempi sufficientemente lunghi volti a colmare la richiesta di informazioni.
Detto questo, si può comprendere meglio tutta la confusione riguardante fake news e disinformazione del periodo corrente. Infatti, molto spesso, gli studi preprint, come dichiarato dalle piattaforme stesse, mancano di attendibilità, ma vengono utilizzati ugualmente come fonti per articoli giornalistici più o meno specializzati in materia medico scientifica. Di per sé tutto ciò non sarebbe un problema, ma c’è bisogno di chiarezza. In questo senso il divulgatore scientifico Ivan Oransky, sul Columbia Journalism Review, ha stilato tredici linee guida per i giornalisti, affinché possano essere il più possibile chiari e coerenti nei confronti dei propri lettori o uditori. Tra queste le più significative sono: leggere per intero gli studi citati e cercare punti di vista esterni , chiarire bene la propria fonte, chi ha iniziato la ricerca e se vi sono possibili conflitti di interesse o ancora, evitare allarmismi, false speranze, evitare aneddoti e usare il linguaggio con molta attenzione.
Giovanni Lanzetti