Il processo di rapida evoluzione che sta attraversando la comunicazione in questi decenni ha sconvolto paradigmi e aperto nuove prospettive. Non siamo più semplicemente fruitori di servizi, siamo coinvolti in una dimensione dove mezzi, messaggi, interazioni sono un tutt’uno. Si aprono potenzialità enormi e insieme deve crescere la responsabilità personale e collettiva. Un avvenimento capita dall’altra parte del mondo e arriva direttamente e immediatamente davanti ai miei occhi. Chi rilancia immagini, parole e suoni non è l’inviato di una redazione, ma una persona che forse per caso si trova dove accade qualcosa di interessante e passa quando sente e vede ad un amico. La comunicazione è attivata, difficilmente si potrà fermare… Si mette in moto quella che si chiama viralizzazione. Fin qui si tratta di dinamiche già note, che sperimentiamo in prima persona.
Forse non ci risulta facile pensare che anche ad altre latitudini – dove siamo abituati a ricevere notizie che riguardano drammi umanitari per scarsità di cibo, malattie, emigrazione o guerre – la comunicazione corre ormai sulle stesse tracce. Ho l’esperienza diretta di Kinshasa, metropoli di circa 13 milioni di abitanti, capitale di uno stato immenso, la Repubblica Democratica del Congo. Tutto o quasi si svolge ormai attraverso gli smartphone. C’è una qualità diversa dei mezzi, le infrastrutture tecniche non permettono grande velocità di connessione, ma ragazzi, giovani e meno giovani sono tutti concentrati, non diversamente da quanto accade da noi, sui loro schermi. Poiché l’energia elettrica non è distribuita in modo regolare, il grande problema è quello della batteria, che però si può ricaricare agli angoli delle vie, dove c’è chi ha organizzato un pannello con tante prese collegate a un generatore di corrente. Le unità di comunicazione, il credito, è venduto sia nei negozi delle compagnie telefoniche che in banchetti che si trovano ovunque, in piccole quantità a costi abbastanza contenuti e con l’opportunità di usufruire di forfait che garantiscano l’uso a buon prezzo di Internet. Una rete sociale diffusissima come Facebook inoltre, è fruibile in forma gratuita anche se in modo ridotta (senza poter vedere le immagini). Tante volte mi son sentito dire: ma con tutti i problemi che hanno quelle popolazioni, perché spendono soldi per un cellulare e per la connessione? Non si dovrebbero occupare piuttosto di cercare il necessario per vivere? È il rimprovero che sento fare verso i giovani immigrati che vivono nelle nostre città. Chiedono una moneta dicendo di aver fame, poi vediamo che sono sempre attaccati al loro smartphone. Occorrerebbe domandarsi se noi sapremmo stare senza inviare un messaggio ai nostri familiari che si trovano a migliaia di chilometri di distanza, di informarsi su come va la salute, su cosa stanno facendo…
La realtà sociale è in massima parte, in ogni angolo della terra, segnata dalle stesse situazioni. Non pensiamo che il bisogno di stare connessi riguardi solo il “nostro” mondo. Un esperienza simpatica ma piena di significato può esplicitare la situazione. Una volta alle porte di una comunità religiosa venivano coloro che cercavano un pezzo di pane per sfamarsi, e questo capita ancora oggi e capiterà sempre. Ma accanto a questi “affamati” si presenta ora chi cerca un nuovo “alimento” essenziale, la connessione. Poiché la comunità religiosa ha talvolta un buon Wi-Fi, l’obiettivo è quello di carpire la password per poter accedere, almeno per qualche ora, e lavorare in rete. D’altra parte, in Italia come in ogni altra parte del mondo, gran parte delle attività si appoggiano all’online. Ricerche per gli studi, domande di lavoro, bandi di concorso… tutto si serve di una piattaforma digitale o quanto meno passa attraverso un indirizzo di posta elettronica. Ingiusto allora tacciare i giovani immigrati di star troppo attaccati agli smartphone, quando noi stessi ci rendiamo conto di quanto dipendiamo da questo modo di comunicare.
Fa riflettere anche il fatto che gli stessi inconvenienti nelle relazioni familiari o scolastiche, affidate oggi anche alle reti sociali, si ripetano, fatte salve alcune varianti, in Africa come tra di noi. La pervasività e la privatizzazione, che sono due rischi della rete a cui siamo tutti esposti, e l’inadeguata percezione e consapevolezza che ne abbiamo, ci indirizza sul terreno quanto mai necessario della formazione. Anche se ci sentiamo tutti “digitali”, giovani e meno giovani, in realtà la nostra presunta dimestichezza con i vari mezzi, non corrisponde ad un’effettiva competenza in grado di orientare in modo critico e sicuro il loro utilizzo. Occorre trovare tempo e modi adatti per approfondire, capire e formarsi, in ogni angolo della terra.
don Roberto PONTI