«Il senso comune è… la ‘filosofia dei non filosofi’». Così scriveva Antonio Gramsci nei suoi «Quaderni del carcere» (febbraio 1929) riferendosi a quelle idee sull’esistente elaborate acriticamente da chi ha strumenti parziali, errati o addirittura inesistenti per decodificare le cose del mondo. Si tratta di un processo concettuale mutuato da diversi ambiti del pensiero. La sociologia ad esempio teorizza il cosiddetto «senso comune sociologico» ovvero l’analisi e la comprensione dell’esistente per come appare. Solo per il fatto di vivere insieme ad altri individui, ognuno di noi si è fatto una serie di idee su ciò che definiamo «società». Siamo tutti un po’ «sociologi», perché interpretiamo il circostante attraverso le mere forme esteriori, in modo intuitivo. Anche in questo caso si tratta di una visione ridotta o distorta e priva dell’empirismo e della scientificità tipici del metodo sociologico.
Caso esemplare è rappresentato poi dal senso comune applicato alla scienza proprio in tempi di Coronavirus: il proliferare giornalistico di numeri, grafici, dati nei bollettini quotidiani ha sensibilizzato all’importanza della scienza e alle sue ricadute concrete. In alcuni casi, alle cifre si accompagna il lavoro serio di divulgazione e spiegazione, per favorire il formarsi di corretti parametri interpretativi nel lettore e di un buon senso comune scientifico. In casi meno fortunati, se il lettore non approfondisce e viene incastrato in circuiti informativi che promuovono fantasie e polemiche piuttosto che analisi ponderate, si rischia di trasformare il dato scientifico in opinione pseudo-scientifica. A tutti questi «sensi comuni» se ne possono aggiungere altri come quello estetico, culturale o politico. Ogni sfera dell’umano, quindi, è oggetto potenziale di «common sense», così come ogni persona ha conoscenza (e non sempre coscienza) di un numero sufficientemente elevato di fatti a proposito dell’ambiente in cui vive. Questa condizione dell’agire è certamente favorita dall’enorme disponibilità di spazi e strumenti digitali.
«Benvenuti nella cultura convergente», augurava all’umanità il guru della web society Henry Jenkins. Succedeva nel 2007 e il mediologo americano profetizzava lo scenario contemporaneo orientato dalle logiche digitali e da quell’ online activism che trasforma da semplici cittadini in promotori e protagonisti di azioni di sensibilizzazione, aggregazione, raccolte firme e fondi, lobbying su istituzioni e opinione pubblica. Ma se da un lato l’attivismo digitale amplia le opportunità di partecipazione, dall’altro cela delle insidie relative alla diffusione (e gestione) virale causata dall’enorme circolarità delle informazioni. È il caso dei contenuti propagati via «social» che si moltiplicano a ritmo esponenziale. Una ricerca della società di monitoraggio dell’audience digitale ComScore (marzo 2020) evidenzia come, durante la quarantena, il tempo speso giornalmente su WhatsApp è aumentato dell’81%, mentre si registrano incrementi meno significativi o inesistenti relativi alla presenza su altre piattaforme come Facebook o Instagram. Questo dato esplicita la predominanza dell’instant messaging, diventato spazio e tempo principale nel quale consumiamo porzioni della nostra esistenza. In esso incontriamo, ci relazioniamo, ci informiamo, creiamo. E soprattutto diamo sfogo e forma al nostro senso comune, di qualsiasi tipo esso sia. WhatsApp dunque (ma anche tutti i software di streaming, teleconferenza, didattica a distanza, «scoperti» durante il lockdown) diventa il terreno fertile nel quale i nostri pensieri e credenze possono proliferare e raggiungere infiniti pubblici.
Questa riproduzione del contenuto individuale va al di là delle derive tipiche del web come le fake news. Rischia cioè di costruire un vero e proprio «senso comune digitale» che fagocita competenze, ruoli, discipline, regole, limiti creando così uno scenario fatto di autoreferenzialità ed esclusione. La soluzione è sempre la stessa: l’educazione. Non ai tecnicismi della Rete o a presunti corretti usi dei dispositivi tecnologici, ma a quell’integralità dell’umano che sia capace di contenere il senso comune e lo converta nel più autentico e generativo senso di comunità.
Massimiliano PADULA Flavia MARCACCI Pontificia Università Lateranense