Nel calcio inglese sembra si stia aprendo una nuova bufera. Non riguarda la nazionale o le problematiche causate dalla Brexit, ma l’uso dei dati dei calciatori. Sono ormai centinaia i giocatori della Premier, attivi e non, a voler fare causa alle aziende di scommesse e di diffusione di dati sportivi per uso illecito di informazioni personali e statistiche sulle prestazioni.
Di pancia verrebbe da pensare che sono i soliti calciatori assetati di soldi, e forse in parte è vero, ma c’è un significato più profondo nella notizia. Certi tipi di dati riguardano tutti gli sportivi e, alla fine, potrebbe significare che anche l’atleta della domenica avrà maggiori tutele.
Pensiamo ai nostri smartphone, capaci di calcolare i passi che facciamo e le calorie spese; pensiamo alle applicazioni che ci aiutano nell’allenamento; in alcuni casi siamo noi a pagare un abbonamento per ottenere dei dati, che poi restano alle aziende e vengono aggregati con quelli di altri utenti, fornendo così informazioni non solo sul singolo ma su una fetta di società.
Se fossero le aziende a dover pagare gli atleti e gli amatori per tenere i loro dati? Le aziende fanno business con qualcosa di estremamente personale, in modi di cui gli utenti spesso non sono consapevoli. Le aziende pagano milioni di euro per ottenere database di dati ottenuti gratuitamente da società capaci di raccoglierli, e se invece ci pagassero per questo?
È anche vero che i calciatori sono personaggi pubblici, sono loro che scelgono liberamente di andare in campo. I campi di gioco sono di proprietà delle società sportive e spetta a queste ultime dare determinate autorizzazioni, per esempio non si possono fare dirette Facebook facendo vedere la partita, è illegale, si viene denunciati dal club e non dai calciatori.
La problematica è certamente complessa, con ripercussioni anche sulle sponsorizzazioni, non sappiamo se confinata in Inghilterra o con risvolti inerenti l’Europa, certamente riguarda la privacy nostra e dei calciatori.
Andrea ANNUNZIATA