Howard Gardner definiva i giovani con l’abitudine di risolvere ogni problema attraverso il click su un’icona del cellulare come “generazione app”. Da allora, il mito del digitale come “risolutore magico” di ogni problema si è ulteriormente sviluppato contagiando persino la transizione digitale e l’obiettivo 9.c dell’Agenda Sostenibile dell’ONU (accesso universale a Internet). L’eccessivo entusiasmo, però, nasconde il pericolo di ingiustizie e iniquità.
Secondo le ultime statistiche ISTAT disponibili (2020), il 33,8% delle famiglie non possiede un computer e quasi il 30% non dispone di un accesso a Internet. Questi valori crescono drasticamente se la famiglia è composta solo da coniugi over 65: il 70,6% di loro non possiede un computer ed il 34% non accede a Internet. Non stupisce che, nonostante il 90% degli italiani sia possessore di una carta di credito/debito, solo il 47% abbia un account su una piattaforma di pagamento. Questo è il contesto in cui si realizzeranno i servizi digitali e l’accesso a Internet.
La fruizione di un qualsiasi servizio pubblico, persino la ricezione della ricetta medica, pone tre problemi: connettività, dispositivo, competenze. Chi non possiede una connessione a Internet oppure non dispone di uno strumento sufficientemente moderno o, peggio, non ha le abilità necessarie per padroneggiare un processo digitale (come SPID o pagamento) viene escluso dai servizi pubblici. Un terzo della popolazione scomparirebbe dai radar dell’assistenza e diventerebbe invisibile. La situazione non cambia se pensiamo ai ragazzi tra i 14-17 anni: 2 su 3 non possiedono competenze digitali di base!
Un semplice test può confermare questi timori: quanti sono in grado di inviare digitalmente un modulo firmato a mano? Questo processo implica la richiesta del documento, il download, la stampa, la compilazione, la scansione e, in ultimo, l’invio. Quanti sono capaci di farlo in autonomia? Quanti possiedono la stampante? Quanti sono in grado di usare lo scanner? Se non si è in grado di fruire un servizio digitale, si è esclusi e non si lasciano tracce di sé. Senza l’etica, i servizi digitali e l’accesso a Internet creano emarginazione.
Il digitale, se non governato, rincanta il mondo e chiede un prezzo da pagare: l’abbandono dei più deboli, degli indifesi, degli emarginati. Nel mondo del lavoro, ad esempio, si dice che il digitale crei più posti di lavoro di quanti ne distrugga. I posti di lavoro persi (cioè persone) riguardano le mansioni meno specializzate e non più necessarie; sono richieste nuove competenze, ma solo con contratti precari e poco remunerativi. Nasce la classe sociale dei lavoratori poveri, persone che, benché lavorino, galleggiano sulla soglia della povertà. La patina di benessere del digitale addormenta i nostri sensi o, come dice il salmo, nella prosperità l’uomo non dura.
La Chiesa corre lo stesso rischio. Le parrocchie non si identificano più con la comunità territoriale, ma la parrocchia vive là dove si costituisce una comunità. Questa comunità fluida, libera dai vincoli territoriali, mantiene i contatti con WhatsApp o Facebook, apre la pastorale alle realtà locali e rivitalizza l’apostolato che, se non tenesse conto di questi processi digitali, sarebbe destinato a fallire. Per questo c’è bisogno di una preparazione maggiore, una conoscenza migliore, strumenti differenti e, ancora una volta, uno sguardo agli esclusi dal digitale, le periferie sociali, gli scarti di cui parla papa Francesco.
L’apostolato digitale può parlare alla società fluida ed essere la cassa di risonanza delle realtà più emarginate che rischiamo di dimenticare. Non è un problema di etica del digitale (non siamo stati capaci di costruire una società giusta, come pensiamo di farlo con la tecnologia?), è un problema di etica nel digitale, di persone e stili di vita nuovi. Cambiare il cuore delle persone cambia la società, la tecnologia, il digitale.
Edoardo MATTEI, Docente di Teoria dei Media Digitali