“Dare a tutti un’identità”, aggiungerei digitale, è uno degli obietti dell’Agenda ONU 2030 per lo Sviluppo Sostenibile.
Si stima infatti che oggi oltre 1 miliardo di persone, si pensi ad esempio agli immigrati, non abbiano un’identità riconosciuta e pertanto non possano in alcun modo partecipare alla vita democratica del proprio paese, non possono votare, accedere ai servizi sanitari o anche banalmente aprire un conto in banca.
Senza identità non esisti.
Ma cos’è l’identità e come possiamo rimodularla nell’era digitale?
Da un punto di vista giuridico il concetto di identità rimanda a due momenti distinti, sebbene sovrapponibili, della vita dell’individuo.
L’identità personale viene declinata in ciò che permette ad ognuno di essere unico, distinto dagli altri e quindi riconoscibile. In questo senso obbligatoriamente l’identità non è un concetto statico ma anzi, come scriveva Bauman nel 2006, “si presenta come un’ininterrotta evoluzione all’interno della società moderna”.
Per identità legale, invece, si intende quel sistema di identificazione che permette all’individuo di interagire con gli organismi pubblici (e non) e dal quale deriva il riconoscimento della persona di fronte alla legge al fine di facilitare l’esercizio dei diritti e il rispetto dei corrispondenti doveri.
Quindi identità come “io” distinto dagli altri, libero di evolvere dentro e fuori la relazione con la società, e contemporaneamente identità come “noi” esseri con uguali diritti e doveri all’interno di una società.
Nell’ambiente digitale il tema si arricchisce ulteriormente perché nel rapporto individuo-società subentra un terzo elemento, la tecnologia. Come scriveva Rodotà nel 2004, infatti, con i dati sparsi su migliaia di piattaforme l’identità si articola “attraverso (..) una molteplicità (…) di rappresentazioni di sé” tracciate, e “(…) si collega sempre più ampiamente al “diritto di non sapere”, la libertà cioè a non essere identificati (e tracciati) ove non sia necessario.
Proprio in questa rete di identità multiple, la privacy (digitale) diventa un diritto fondamentale affinché ogni individuo possa sviluppare la propria personalità determinando volontariamente quando e come essere riconosciuto. Altrimenti, per citare Edward Snowden, non avremo più “un posto dove nasconderci”.
Il rischio infatti è trovarsi nel “Panopticon” di Bentham, un carcere ideale in cui un unico sorvegliante ha la capacità di osservare tutti i soggetti senza che questi sappiano se siano in quel momento controllati o no, modificandone pertanto il libero comportamento tout court.
Un’identità digitale mal gestita potrebbe quindi non solo sdoganare un sistema di sorveglianza di massa capace di modificare il sé e l’identità personale, ma potrebbe addirittura trasformarsi, quando non riconosciuta, in uno strumento di esclusione di alcuni individui da quelli che sono i meccanismi propri di una comunità democratica.
Come possiamo quindi costruire un sistema di identità digitale che non attenti alla libera autodeterminazione dell’individuo e contestualmente possa essere uno strumento per promuovere l’uguaglianza e la crescita sostenibile?
La comunità digitale sta sviluppando diversi modelli di identità che riflettono differenti modalità di interazione e relazione tra i soggetti: in Italia abbiamo lo SPID che è un sistema centralizzato di identità digitale, ma esistono già forme federalizzate (come “Accedi con Facebook”) e forme distribuite (basate sul sistema di blockchain).
È chiaro quindi che chi si occupa di socio-tecnologie oggi deve valutare ex ante l’impatto che queste avranno sul medio-lungo periodo, in quanto i diversi sistemi di potere possibili plasmeranno radicalmente la società e la vita degli individui che la abitano.
Potrebbe essere a maggior ragione utile sperimentare i modelli di futuro in laboratori dedicati, con l’obiettivo di far emergere best-practices in grado di semplificare e accelerare i processi di trasformazione digitale.
Luna BIANCHI, giurista