Gli altri sono il futuro che ci passa vicino

Ripubblichiamo parte di un articolo di Giorgio Ceragioli, già apparso sul  n. 10 del 1992 di “Progetto” (ora “NP”) del Sermig”

Ciascuno di noi deve imparare ad accogliere sé stesso nel futuro: nei mesi prossimi, negli anni prossimi, perché nel domani ciascuno di noi sarà diverso da quello che è oggi. Accogliere il domani vorrà dire accoglierci più vecchi, qualche volta più malati, qualche volta più stanchi, qualche volta più generosi, più capaci di impegno, qualche volta capaci di fare delle cose che una volta non eravamo riusciti a fare. È tutto un cambiamento che richiede disponibilità, capacità di trovarsi bene, a casa propria anche al limite in una roulotte, in una casa mobile che si sposta nel futuro, assieme al futuro. Queste capacità di accogliere noi stessi, le capacità che Dio ci dà, sono da vivere giorno per giorno, mese per mese.

Quanta difficoltà ad accogliere anche i cambiamenti che ci sono intorno a noi. I cambiamenti continui nei ragazzi, nei giovani che ci sono di fianco, o, se siamo giovani, nei genitori; negli anziani che diventano sempre più vecchi e meno capaci di sopportarvi, di aiutarvi, e cominciano a domandarvi aiuto, chiedono comportamenti diversi e capacità di accettare questo cambiamento nelle cose vicino a noi, nella gente che ci circonda.

Non è facile accettare le persone più lontane, come gli stranieri, e tutte le diversità che un po’ per volta incontreremo andando avanti. Non è facile accettare la gente profetica, non è facile accettare i santi che ci passano di fianco, non è facile accettare le nuove tecnologie, i nuovi modi di lavorare, accettare le nuove malattie: non è facile accettare tutto quello che è nuovo. In questa accoglienza delle novità nelle cose nelle persone sta probabilmente una delle nostre capacità, una delle nostre possibilità più grandi di accoglienza del futuro.

Accoglienza del futuro non vuol dire però passività: non vuol dire lasciarsi condizionare dalle cose così come capitano: anzi, vuol dire muoversi nel futuro come siamo stati abituati a muoverci negli anni precedenti, vuol dire essere in grado di difendere le nostre idee, e di proporle, essere in grado di dialogare, di cercare di convincere gli altri.

Rispetto al passato e alla cultura che molti di noi hanno avuto, andiamo verso una società dove ci sono contemporaneamente molte razze, molte culture, molti comportamenti diversi che bisogna saper accettare, accogliere, anche se possiamo a volte controbatterli, anche se possiamo a volte non essere d’accordo.

Gli «altri» sono veramente il futuro che ci passa vicino: una parte di noi questo futuro lo intravede solo adesso e non lo vedrà più; una parte di noi lo vedrà e ci vivrà dentro. Noi più anziani abbiamo un po’ la fortuna di vederci passare il futuro vicino, di cercare di preparare gli altri, i nostri figli, i nostri nipoti senza essere obbligati a viverlo, senza essere obbligati forse a cambiare troppo rispetto alle nostre mentalità. Nonostante questo, dobbiamo educarci tutti insieme ad assimilare la capacità di cambiamento e, passo dopo passo, a costruire quelle culture che necessariamente dobbiamo cercare di farci per vivere il futuro.

Se vogliamo lo sviluppo, abbiamo bisogno di essere tutti sviluppati, se vogliamo una vita serena e tranquilla bisogna che tutti abbiano una vita serena e tranquilla nella pace, e la pace non è divisibile. O tutti siamo nella pace, o il nostro mondo non sarà più nella pace. Questa è la cultura dell’interdipendenza materiale. E, per l’interdipendenza spirituale, se vogliamo essere figli di Dio, se vogliamo arrivare al Regno di Dio, dobbiamo cercare di arrivarci insieme. Gesù ci ha fondato come umanità, come comunità: il destino nostro è un destino che passa attraverso i nostri fratelli.

La solidarietà bisogna averla con tutti e tutti assieme dobbiamo vivere la solidarietà. Concretizzare l’idea della fratellanza, dell’uguaglianza dei diritti e dei doveri, dell’unicità della stirpe umana sono mete necessarie per superare la suddivisione del mondo, per abbattere le barriere, per considerarci tutti pane dell’unica famiglia umana.

 

Giorgio CERAGIOLI, su “Progetto” (ora “NP”) del Sermig, n. 10, 1992

 

 

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