La trasformazione digitale e l’evoluzione delle abitudini online sono fenomeni in costante mutamento, ampiamente descritto da ricerche sociologiche o più prosaicamente di mercato. Ricerche che risentono però dell’ingessatura inevitabile dei modelli e del bisogno di modellizzare astraendo. L’esperienza di pastorale universitaria a contatto con tanti giovani e quella on line con altrettanti ci permette di fare qualche riflessione più dinamica.
Nell’immensa giungla digitale, dove i giovani si muovono con una disinvoltura che a molti di noi, reduci dell’età della carta, sembra quasi sovrannaturale, si sta delineando un mutamento di particolare rilevanza sociale ma anche decisiva in ottica pastorale. Al centro di questo cambiamento troviamo la Generazione Z, nata tra la metà degli anni ’90 e la metà del 2000, una coorte che sta mostrando una certa insofferenza verso le regole non scritte dei social media, quelle stesse piattaforme che sembrano essere state il loro pane quotidiano fin dalla culla.
I nativi digitali non si accontentano di vivere in un eterno riflesso di Dorian Gray digitale. Vogliono essere veri. Il desiderio di autenticità emerge infatti come un tratto distintivo, contrapposto all’uso dei social media come vetrine per una vita perfetta, tipico di epoche precedenti. I giovani di oggi tendono a preferire l’autenticità e la spontaneità, rifuggendo dalle rappresentazioni idealizzate di sé stessi. Questo spiega il successo di una piattaforma, BeReal, che fa dell’essere reali il suo cuore. Questo si manifesta anche in comportamenti come la disattivazione degli account social, la limitazione dell’uso dei dispositivi mobili, o il rimanere in posizione passiva, senza interazioni dirette, solo osservando quanto avviene on line, forse nel tentativo di distaccarsi da una dipendenza dai media digitali. Tutto questo potrebbe ricordare il comportamento di una spia della Guerra Fredda piuttosto che quello di un adolescente del XXI secolo. Ma la spiegazione è più semplice e, osiamo dire, più sana: una ricerca di equilibrio tra la voglia di restare connessi e il bisogno di preservare un angolo di privacy.
Non meno degno di nota è il mutamento nel gusto: la ricerca ossessiva della foto perfetta, dell’immagine che urla al mondo “guardate quanto è bella la mia vita!”, sembra passare di moda. La spontaneità guadagna terreno, forse in una sorta di reazione immunitaria al troppo zucchero che ha impastato i social negli ultimi anni. La generazione più giovane dimostra un interesse minore per le “foto esteticamente belle” o l'”instagrammabilità”, valorizzando invece la veracità nei contenuti che condivide. Questa tendenza si riflette nell’apprezzamento per i video in diretta e per i contenuti che catturano momenti reali della vita quotidiana, piuttosto che scene accuratamente curate.
La predilezione per le storie effimere su Instagram, che svaniscono dopo 24 ore, è un altro tassello di questo mosaico complesso. Non è solo la volontà di evitare un confronto continuo con il passato, ma una dichiarazione di intenti: “Io sono qui, ora, e domani potrò essere diverso”. Cancellare una foto, in questo contesto, non è un semplice click. È un gesto carico di significato, un modo di dire che si è cambiati, che si è andati avanti. La natura effimera delle storie in realtà non è così effimera, ma permette agli utenti di presentare una narrazione sempre aggiornata di sé stessi. Essa simboleggia una riflessione più ampia sul rapporto tra identità digitale e crescita personale. È un gesto di riconoscimento del cambiamento e della trasformazione.
Sembra dunque che i giovani ci stiano indicando una strada diversa, nuova. Pare proprio che in questo incessante fluire di immagini e parole che tutto avvolge e che tutti ci avvolge, loro stiano cercando di ritagliarsi un angolo di realtà, un luogo dove essere sé stessi senza filtri. E, chissà, forse da questo loro tentativo potremmo imparare tutti qualcosa.
Équipe Apostolato Digitale