Il tema del dopocoronavirus offre l’occasione di riflettere sulla connessione tra il domani delle istituzioni culturali e quello della società che porta con sé il superamento della visione statico-conservativa verso una nuova concezione dinamico-trasformativa. La prima questione cruciale é cosa ha rappresentato finora un museo: un deposito di storie e oggetti? un luogo troppo spesso scarsamente animato e noioso? una sorta di nuova cattedrale che attrae persone e aspettative da ogni parte del mondo? un luogo di raccolta di astrusi show-off, come lamentato dal pubblico delle strutture che ospitano l’arte contemporanea? una celebrazione dell’ego di archistar, in cui non di rado il contenitore cannibalizza il contenuto? O invece il tradizionale archivio del passato?
In ogni caso i musei sono riconosciuti come luoghi in cui storia e patrimonio umano del passato (e non solo) sono custoditi e resi tangibili; in cui radici e identità dei popoli sono spiegate, rese vive e presenti. È innanzitutto questa la ragione per la quale sono oggetto della foga distruttiva del terrorismo di qualsiasi matrice. Se guardiamo allo sterminato patrimonio che costudiscono, i musei sono un luogo elettivo di raccolta di dati. Dati sulle comunità, sulle consuetudini e sugli oggetti, sul pensiero in diversi momenti storici. Dati con cui profilare in chiave antropologico-interpretativa le storie dei popoli e globalmente la realtà. Pertanto se i Big Data sono considerati il petrolio del XXI secolo, i Cultural Data sono da immaginarsi come l’acqua. Non inquinanti, devono essere accessibili perché vitali. Ciò traghetta i musei verso una missione futura, o meglio di «presentificazione del futuro». Si tratta di ripensare il canone, con l’obiettivo di ricongiungere in una narrativa culturalmente funzionale passato, presente e futuro; guadagnando una connessione tra generazioni. Attingendo ai cultural data è possibile ridurre fino ad eliminare il gap generazionale, attraverso la ricerca di nuovi e più inclusivi codici, in grado di proiettare il futuro in una dimensione di attualità: la nuova mission dei musei.
Esistono già interpretazioni significative, come il Museu do Amanhã di Rio e il Museum of The Future di Dubai. L’uno orientato ad ecologia, sostenibilità e tutela ambientale, l’altro ad innovazione tecnologica e design futuristico, condividendo la medesima narrativa, basata su due punti: a) Il Futuro come keytopic della filosofia espositiva, b) la trasformazione della relazione tra museo e pubblico dal paradigma conservazione/fruizione a quello call to action/engagement. In entrambi i casi il digitale assume un ruolo fondamentale. Come deve necessariamente accadere per tutte le istituzioni culturali. La pervasività che esso ha assunto nella vita quotidiana delle persone, infatti, non è terreno di conflitto ma piuttosto di valorizzazione dell’esperienza del pubblico nei musei, in cui l’internet delle cose interagisce positivamente con le cose fuori da internet.
In un nuovo modello di storytelling, ai visitatori deve essere data la possibilità di muoversi fluidamente tra digitale e reale come tra passato, presente e futuro. Così, nell’era della massima omogeneizzazione dell’esistente, in cui la globalizzazione ha determinato la sistematica erosione delle differenze, la mercificazione e la svalutazione delle tradizioni culturali, i musei possono rappresentare veri e propri segnali d’allarme, luoghi di richiamo delle coscienze alla conoscenza come principale mezzo per la costruzione di capitale umano, senso di appartenenza, inclusione sociale e perfino cura della salute. In generale, divenendo sempre più aperti, accessibili e coinvolgenti, i musei sono chiamati a reinventarsi – e lo stanno già facendo – come spazi civici di responsabilità sociale, impegnati a studiare problemi e scoprire soluzioni, ad analizzare comportamenti e convinzioni, trovare nuovi metodi per comunicare ed educare le comunità, coinvolgere nuovi pubblici, promuovere e incoraggiare la creatività. Oasi del reale, che offrono l’accesso ai prodotti senza tempo del genio umano. Ancora più reali ed essenziali in un mondo sempre più immateriale in cui la tecnologia può e deve proporre al pubblico esperienze complementari e non sostitutive.
Patrizia ASPRONI, Presidente Fondazione Industria e Cultura