La produzione di “mini-cervelli” in laboratorio non è più una fantascienza. Il recente studio An early cell shape transition drives evolutionary expansion of the human forebrain pubblicato dalla prestigiosa rivista Cell ha comparato geneticamente ed anatomicamente lo sviluppo di mini-cervelli di umani, gorilla e scimpanzè ottenuti in laboratorio.
Questi studi e altri simili dovrebbero aiutarci a far luce con l’enigma del secolo: riprodurre la struttura del cervello umano adulto per comprenderne meglio il funzionamento. Il principio che la miglior conoscenza di una struttura biologica (anatomia) favorisce la comprensione del suo funzionamento (fisiologia) risale ad Andrea Vesalio nel XVI secolo. Anche per il cervello dovrebbe valere. Il condizionale è d’obbligo, date le evidenze sempre più numerose circa una non localizzazione stretta delle funzioni mentali, motorie, sensitive ed affettive in specifici loci cerebrali. Basti pensare al caso di quell’impiegato a cui nel 2007 venne evidenziato un enorme idrocefalo con una ridottissima porzione di corteccia cerebrale cha paradossalmente permetteva di mediare normali funzioni cognitive e motorie umane (Feuillet L, Dufour H, Pelletier J. Brain of a white-collar worker. Lancet. 2007).
Se la ricerca di base sulla struttura cerebrale procede è grazie allo sviluppo di una sofisticata tecnologia digitale che rende possibile tanto la riproduzione microscopica del tessuto cerebrale e delle sue connessioni, come le interpretazioni algoritmiche di possibili vie di comprensione del funzionamento dell’intricata matassa di interazioni tra neuroni e cellule gliali. Un cervello adulto pesa circa 1.300-1.500 grammi e statisticamente parlando conterrebbe circa 86 miliardi di neuroni, ciascuno dei quali stabilirebbe almeno un “dialogo” funzionale con 1.000 connessioni. Perciò moltiplicando 86 miliardi per 1.000 si otterrebbe ciò che viene denominato “connettoma” umano. Per alcuni scienziati, decodificare il connettoma significherebbe ottenere e poter riprodurre le funzioni della persona umana a cui appartiene quel cervello. Ciò per Raymond Kurzweil, direttore tecnologico di Google, uno dei più ferventi futuristi, dovrebbe raggiungersi nel 2045, anno in cui inizierebbe un sostanziale cambio strutturale sociale che denomina “singolarità”.
Su un altro versante, complementare, tanto procede la comprensione strutturale e funzionale di parti del nostro organo cerebrale, tanto ne aumenta l’emulazione attraverso la tecnologia.
Ecco che si stabilisce una feconda circolarità tra ricerca di base che progredisce attraverso la tecnologia e la digitalizzazione e, dall’altra, tale innovazione tecnologica riesce a produrre oggetti che beneficiano altri campi del sapere oltre a continuare ad alimentale il progresso della stessa ricerca di base in ambito neuroscientifico.
Se questo approccio metodologico è valido, la sua idealizzazione può comportare problematiche etiche e sociali non indifferenti. Qui si colloca la neuroetica odierna che non è altro che una riflessione sistematica ed informata sulle neuroscienze e sulle interpretazioni delle stesse neuroscienze che includono tutte le scienze del cervello, della mente e del rapporto mente-corpo al fine di una miglior auto-comprensione dell’umano e la valutazione dei rischi e benefici dell’applicazione di neurotecnologie e quant’altro alle diverse fasi della vita della persona umana. Già ai suoi albori nel 1973, ma soprattutto dal 1993 in poi, la neuroetica mette in guardia una visione interpretativa di stampo computazionale del cervello umano, frutto del modello meccanicista e funzionalista applicati alla ricerca di base e allo sviluppo digitale. La fondatrice del neologismo neuroetica, la neuropsichiatra Anneliese Alma Pontius (1921-2018), criticò in diverse pubblicazioni scientifiche il modello di una mente digitalizzabile (una sorta di software) supportata da un hardware accidentalmente biologico (il cervello). La corporeità è intrinsecamente necessaria allo sviluppo e al sostentamento delle nostre funzioni mentali. La neurobiologia delle memorie evidenzia sempre più lo stretto rapporto di interdipendenza tra cervello e tutto il resto del corpo umano per l’esperire mnestico. Da qui la necessità di una visione integrata ed incorporata nella biologia corporea per non perdere l’identità autobiografica di ciascuno. Un cervello digitale derivante dalla decodifica di uno biologico non produrrà una personalità identica a quella dell’essere umano a cui è stato estratto tale cervello. Le diverse utopie transumane, come quella del Progetto russo 2045, dimenticano che noi esseri umani non abbiamo un corpo, ma siamo il nostro corpo! L’Embodied Neurology che si sta sviluppando oggi corrobora scientificamente tale realtà antropologica.
Alberto CARRARA, Pontificia Accademia per la Vita
ricerche che si possono supportare ed integrare nello sviluppo senza esaurirlo