Nelle biblioteche ben assortite viene dedicato molto lavoro a disporre il patrimonio librario in modo tale da favorirne la consultazione. L’ordine nella collocazione dei libri è a sua volta il risultato di una vera e propria competenza scientifica, “la scienza bibliotecaria”.
Anche l’organizzazione relativa alle pubblicazioni scientifiche mediante collane e riviste segue il modello di una rigorosa selezione e suddivisione sulla base della competenza disciplinare. È questa strutturazione degli argomenti ad andare persa nel web. I collegamenti seguono essenzialmente la distribuzione statistica del comportamento dell’utente e riproducono in tal modo catene associative la cui pertinenza sistematica è piuttosto insignificante.
I motori di ricerca, che non rivelano i loro algoritmi, contribuiscono a rendere la situazione ancora meno chiara nella misura in cui perseguono interessi commerciali. Sul web vengono a mancare numerose funzioni di filtraggio assicurate dai gatekeepers: figure come i bibliotecari, lettori nelle case editrici, recensori nelle riviste, redattori in quotidiani e televisioni.
Ciò significa che viene richiesta sempre più a ogni singolo utente della rete una capacità di giudizio da esercitare in proprio. La semplice fornitura di dati non sostituisce la capacità di valutare gli stessi, né di saper vagliare se siano affidabili o su quali argomenti si basino.
Il world wide web ci mette a confronto con una vasta molteplicità di interpretazioni, tesi, teorie e ideologie: diventa sempre più difficile farsi un’opinione. Gli esseri umani che tendono a seguire credenze presentate in modo suggestivo, o che eludono fatti scomodi rifugiandosi dietro schermature illusorie, sono destinati a perdere rapidamente l’orientamento nel nuovo universo digitale. Essi si rinchiudono in bolle all’interno dei social media, oppure si fanno trascinare da flussi di dati, i famosi big data, senza approcciarsi – talvolta neanche minimamente – in modo critico.
“Big data” ed “informazione” non sono sinonimi. Il concetto di big data si riferisce al fatto che oggi disponiamo di un’enorme quantità di dati in molti campi, e siccome sono così tanti e continuamente aggiornati, possono rivelarsi utilissimi come possono creare mera confusione. Ed è per questo che è diventato importante saperli studiare ed analizzare. Mentre informazione è un concetto ben diverso e si colloca a valle di quello dei big data: analizzando questa grande mole di dati, estrarne conoscenza.
Ad esempio, dati, vuole dire quante persone in questo momento mostrano sintomi come febbre, brividi e tosse. Informazione è conoscere, comprendere e valutare se è in corso un’epidemia.
A ben vedere, non viviamo in una società del sapere (informazione), bensì in una società dei dati, o meglio, in un’economia dei dati. La disponibilità di dati abbinata agli algoritmi di intelligenza artificiale che descrivono il modo di comportarsi degli individui (la propensione all’acquisto per esempio), è diventata un modello di successo per fare affari che fanno prosperare i giganti di internet.
Questa società dei big data, la cui massima fioritura giungerà probabilmente con l’espansione del settore delle telecomunicazioni attraverso il 5G, il settore lavorativo con lo smartworking ed il settore del trasporto a la guida autonoma, non è quindi una società della conoscenza, perché la conoscenza consiste in credenze vere e fondate. La conoscenza richiede capacità di giudizio e di analisi. La conoscenza implica capacità di attribuire valore, classificare e interpretare i dati.
La grande sfida che ha di fronte a sé il sistema formativo nell’epoca del digitale è quella di riuscire a trasformare la tendenza attuale all’economia dei dati nello sviluppo di una società del sapere. Riproporre dunque un modello educativo che metta al centro la capacità di comprensione e di giudizio dei dati, nonché il loro “ordine di collocazione” analogo a quello dei libri nel sistema bibliotecario.
Anass EL FARES, Divulgatore scientifico