Prepariamoci al tempo delle aporie, fase di passaggio necessaria per consentirci un graduale processo di risignificazione di quelle qualità che riteniamo costituiscano la nostra condizione umana. Una di queste, fra le più care ad ogni cristiano, è il richiamo a farci prossimi. Come descriveremmo un’esperienza di prossimità nel tempo del distanziamento fisico? Ci riconosciamo nella prossimità vissuta con guanti, mascherine e regolata da specifiche procedure sanitarie? Anche se riuscissimo ad immaginare questa forma di prossimità impermeabile come qualcosa di possibile, non è forse vero che ci apparirebbe come l’azione pianificata di un tecnico, piuttosto che l’esito di un naturale sentimento di compassione?
I dispositivi di protezione non possono che raffreddare l’incontro con l’altro, perché questi si frappongono come ostacoli nella relazione e, forse, impediscono la realizzazione di un gesto che dovrebbe approssimarci all’altro, ovvero permettere alle terminazioni del nostro sentire di “fare sinapsi” con quelle dell’altro per scambiare reciprocamente un contenuto affettivo. Nell’aiuto, infatti, non è il corpo-cosa altrui che si soccorre, ma è l’Altro nell’integrità del suo essere umano. Potremmo semplificare il problema e concludere che non è possibile farsi prossimi se non a mani nude, perché in fondo è nel contatto diretto, immediato e carnale che abbiamo iniziato il nostro cammino nella vita. Sarebbe difficile non essere d’accordo, non fosse che la realtà ci consegna altre soluzioni, ben conosciute da coloro che vivono nella malattia e sperimentano il senso di accogliere ed essere accolti, attraverso la mediazione di dispositivi sanitari, protesi, farmaci, terapeuti e regole precise per accudire il corpo, soprattutto quando, per farsi prossimo, deve anche approssimarsi a qualcosa che ne garantisca la sopravvivenza.
Il nostro potenziale d’amore è tale da riuscire a trovare i modi per esprimersi anche nella mediazione, perché la plasticità del nostro sentire ci consente di adattare le forme degli affetti alle nuove condizioni, senza per questo pregiudicarne necessariamente l’intensità e il segno. «Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato», ci ha detto Papa Francesco dal sagrato della Basilica di San Pietro. Lui era vicino a tutti noi grazie alle tecnologie digitali, ma la piazza era vuota perché il gregge era a casa, malato. Il digitale può consentirci di farci prossimi e insieme proteggerci: documenti, immagini, conversazioni, incontri on line sono modi per esserci, per mantenere le relazioni e prendersi cura di qualcuno. E’, però, necessario sapersi approssimare al digitale per farsi prossimi nel digitale. Con l’espressione approssimarsi al digitale intendiamo la capacità di adattarci ad una particolare tecnologia, incorporandola nelle forme spontanee del comportamento. L’adattamento è un processo attivo, richiede tempo, gradualità, relazione con sé e con gli altri. In parte, questo è già avvenuto con la generazione dei nativi digitali, ai quali semmai è mancata una buona educazione al digitale; per gli altri occorrerà più tempo e, comunque, non avverrà con le stesse modalità dei primi.
Occorre precisare che si tratta, qui, di un processo che necessita di una presa di coscienza: siamo malati e desideriamo guarire e per farlo abbiamo bisogno di tempo e di consapevolezza. Non basta «far finta di essere sani», potremmo dire con Giorgio Gaber, e usare strumenti digitali soltanto perché sono a portata di mano; in gioco c’è la nostra capacità di preservare l’autenticità dei nostri sentimenti, ciò che ci consente di vivere pienamente la prossimità. Sarà, quindi, guardando come riescono a farsi prossimi coloro che vivono nella malattia che impone una mediazione tra noi e il corpo dell’altro che potremmo imparare a farci prossimi nel digitale? Probabilmente sì.
Ivan ANDREIS, Vicedirettore Pastorale Universitaria di Torino