Il Senato della Repubblica affronta la questione digitale: i risultati dell’indagine conoscitiva. Ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica…
Sono gli effetti che l’uso, che nella maggior parte dei casi non può che degenerare in abuso, di smartphone e videogiochi produce sui più giovani. Niente di diverso dalla cocaina. Stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche. È quanto sostengono, ciascuno dal proprio punto di vista «scientifico», la maggior parte dei neurologi, degli psichiatri, degli psicologi, dei pedagogisti, dei grafologi, degli esponenti delle Forze dell’ordine auditi. Un quadro oggettivamente allarmante, anche perché evidentemente destinato a peggiorare.
Tutte le ricerche internazionali citate nel corso del ciclo di audizioni giungono alla medesima conclusione: il cervello agisce come un muscolo, si sviluppa in base all’uso che se ne fa e l’uso di dispositivi digitali (sociale videogiochi), così come la scrittura su tastiera elettronica invece della scrittura a mano, non sollecita il cervello. Il muscolo, dunque, si atrofizza. Detto in termini tecnici, si riduce la neuroplasticità, ovvero lo sviluppo di aree cerebrali responsabili di singole funzioni. Analogo effetto si registra nei bambini cui è stata limitata la «fisicità». Nei primi anni di vita, infatti, la conoscenza di sé e del mondo passa attraverso tutti e cinque i sensi: sollecitare prevalentemente la vista, sottoutilizzando gli altri quattro sensi, impedisce lo sviluppo armonico e completo della conoscenza. È quel che accade nei bambini che trascorrono troppo tempo davanti allo schermo di un iPad o simili. Per quest’insieme di ragioni, non è esagerato dire che il digitale sta decerebrando le nuove generazioni, fenomeno destinato a connotare la classe dirigente di domani.
Mai prima d’ora una rivoluzione tecnologica, quella digitale, aveva scatenato cambiamenti così profondi, su una scala così ampia e in così poco tempo. Il motivo è evidente, lo smartphone, ormai, non è più uno strumento, ma è diventato un’appendice del corpo. Soprattutto nei più giovani. Un’appendice da cui, oltre ad un’infinita gamma di funzioni, in larga parte dipendono la loro autostima e la loro identità. È per questo che risulta così difficile convincerli a farne a meno, a mettere da parte il telefonino almeno per un po’: per loro, privarsene è doloroso e assurdo quanto subire l’amputazione di un arto. Dal ciclo delle audizioni svolte e dalle documentazioni acquisite, non sono emerse evidenze scientifiche sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento. Anzi, tutte le ricerche scientifiche internazionali citate dimostrano, numeri alla mano, il contrario. Detta in sintesi: più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri.
Non si tratta di dichiarare guerra alla modernità, ma semplicemente di governare e regolamentare quel mondo virtuale nel quale, secondo le ultime stime, i più giovani trascorrono dalle quattro alle sei ore al giorno. Si tratta di evitare che si realizzi fino in fondo quella «dittatura perfetta» vaticinata da Aldous Huxley quando la televisione doveva ancora entrare in tutte le case e lo smartphone aveva la concretezza di un’astrazione fantascientifica: «Una prigione senza muri in cui i prigionieri non sognano di evadere. Un sistema di schiavitù nel quale, grazie al consumismo e al divertimento, gli schiavi amano la loro schiavitù». Giovani schiavi resi drogati e decerebrati: gli studenti italiani. I nostri figli, i nostri nipoti. In una parola, il nostro futuro. (estratto)