Correva l’anno 1952 quando il grande teologo Balthasar, nel suo primo scritto programmatico, condensava in questa lapidaria affermazione l’aspirazione della propria teologia (e forse di ogni teologia tout court): abbattere i bastioni. A destare la preoccupazione del gesuita era un’istituzione arroccata su posizioni del passato, che da bastioni difensivi erano di fatto divenute barriere che la schermavano dal mondo e dall’oggi, impedendole di proclamare quell’Amore che solo è credibile, principio e fondamento dell’annuncio cristiano.
È con gratitudine che, 70 anni dopo, possiamo contemplare le tappe che hanno scandito il cammino ecclesiale da allora. Allo stesso tempo, l’intuizione dei bastioni da abbattere illumina il compito dell’apostolato non appena questi si affaccia alle nuove sfide, tra cui un posto di primo piano spetta al complesso universo della rete.
La rete infatti è affascinante: sembra capace di superare bastioni e barriere, di unire i lontani creando forme inedite di prossimità, di rendere accessibili contenuti e materiali dispersi sulla superficie del globo e di custodire la promessa di una partecipazione diretta al dibattito democratico. E allo stesso tempo non cessa di mostrarsi ambigua, insidiosa: sembra creare un mondo fittizio, una vicinanza inconsistente, una trappola per carpire dati e informazioni in barba alla privacy, un minaccioso e inavvertito tentativo di manipolazione, che promuove una crescente semplificazione, banalizzazione, omologazione.
Certo, sarebbe fin troppo facile accontentarsi di distinguere tecnofobi e tecnofili, mandando a memoria il mantra di Eco degli apocalittici e degli integrati, arrivando magari, in sede teologica, a forme di tecno-clastia piuttosto che di tecno-dulia… Le distinzioni più facili hanno sempre il benefico effetto di rassicurare, esonerandoci dal pensare, dalla «fatica del concetto», come ricordava Rahner citando Hegel nel suo Corso fondamentale sulla fede.
La partita, ad avviso di chi scrive, si gioca sul campo della pratica. È passato un anno e mezzo da quando il lockdown ha costretto le comunità cristiane a individuare forme alternative non solo per la celebrazione ma in generale per le loro molteplici attività. Ed è sul terreno della fecondità di queste pratiche, di quella capacità di «inventare il quotidiano», come ricordava de Certeau, che deve concentrarsi l’intelligenza teologica, l’intelletto della fede.
Perché è qui che i bisogni profondi delle persone e delle collettività hanno cercato e tentato esperienze più o meno riuscite, più o meno creative, che da semplici trasposizioni non proprio originali (messa in presenza – messa in remoto) hanno dato vita a nuove pratiche, nuove intuizioni per rispondere ai bisogni del popolo di Dio attraverso i linguaggi specifici e le particolari risorse di senso offerte dal multiverso della rete.
E ora, ogni volta che si affaccia la prospettiva di un rientro alla cosiddetta normalità (che peraltro subito dopo si allontana indefinitamente), non possiamo accontentarci di un banale ritorno al passato, come se simile sperimentazione fosse un incidente di percorso, un tentativo accidentale dettato dall’urgenza. Il compito che si prospetta tanto al teologo quanto alle comunità è di soffermare lo sguardo su quel punto in cui i bisogni reali si appropriano delle risorse a disposizione (anche tecnologiche) dando vita a nuove pratiche, nuovi stili, nuovi luoghi di riflessione (nuovi «luoghi teologici» direbbe Melchor Cano), a partire dai quali ripensare il tesoro della fede e ispirarsi per un’aggiornata azione apostolica, che guardi con simpatia e fiducia al mondo cui si rivolge. Insomma, per «immaginare la Chiesa cattolica», per dirla con Lafont, e sognare l’avventura della riflessione teologica.
Matteo BERGAMASCHI, Docente incaricato Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale – Sezione parallela di Torino