È sbagliato dire che siamo in una società post-industriale. È sbagliato sostenere che il lavoro si è fatto intelligente, smart o (come si diceva un tempo) immateriale e di conoscenza. In realtà, la società e la vita umana non sono mai state così industrializzate e impoverite di conoscenza come oggi con il digitale (e diciamo digitale per definire l’insieme delle cosiddette nuove tecnologie).
Società industrializzate però nella forma della fabbrica – e non dell’impresa, secondo la propaganda dell’ideologia neoliberale e del mainstream – fabbrica dove nessuno è imprenditore di se stesso o capitale umano, ma tutti siamo in realtà (e molto peggio) operai/forza-lavoro del e per il tecno-capitale: quando produciamo, consumiamo, generiamo dati – sempre di più (e le tre cose insieme, h 24).
E quindi: nessun post-fordismo/post-taylorismo, dato che anche l’Industria 4.0 così come le piattaforme digitali e i social con il capitalismo della sorveglianza (le nuove forme della vecchia fabbrica fisica) sono anch’esse basate sulla divisione e poi sulla integrazione/sussunzione industriale-tayloristica del lavoro e dell’uomo nel sistema e sul suo crescente sfruttamento, insieme mascherando l’alienazione che produce (anch’essa digitale, ma sempre nel senso di Marx); e tuttavia sembra tutto nuovo e diverso da ieri (siamo feticisti nel nuovo, anche quando è la riproposizione del vecchio), ma in realtà ogni lavoratore si riduce ad eseguire ancora una volta il comando dell’organizzazione di fabbrica del tecno-capitale, sotto la sorveglianza/controllo del management e del marketing oggi algoritmici; e l’organizzazione, il comando e la sorveglianza (la Direzione di Taylor) e la one best way sono incorporate nelle macchine, nel Wcm, nella esattezza degli algoritmi, nella dopamina che il sistema ci attiva ad ogni like ricevuto.
Quindi, la società è divenuta una società-fabbrica, che ingegnerizza i nostri comportamenti (a questo servono management, marketing e social) perché siano sempre meglio funzionali al funzionamento della fabbrica. E il filosofo Max Horkheimer scriveva già nel 1942 del regolamento della fabbrica ormai esteso all’intera società; mentre l’operaista Raniero Panzieri scriveva, nei primi anni ’60, della fabbrica che esce dalla fabbrica modellizzando su di sé l’intera società – un processo che oggi ha raggiunto una pervasività allora sconosciuta. E così come il neoliberalismo aveva ed ha come obiettivo quello di creare una società di mercato, così il tecno-capitalismo aveva ed ha l’obiettivo di trasformare l’intera società in un sistema tecnico, in una società amministrata e automatizzata – e questo era il timore ancora di Horkheimer, con uomini che “agiranno automaticamente. Obbediranno a segnali”; un timore che oggi è purtroppo già realtà, con l’uomo che assume i comportamenti di una macchina, obbedendo ad app e algoritmi e a segnali/notifiche sullo smartphone. Dimenticando che quanto più deleghiamo la nostra vita alla tecnica (e al capitale) – e alla IA – meno siamo liberi.
La critica da fare, allora, non è però solo al capitalismo e alla sua tecnologia e al neoliberalismo, ma a quella che definiamo razionalità strumentale/calcolante-industriale; e che è prima di capitalismo e di tecnica, ma che ne sostiene e legittima la logica perversa ed ecocida dell’accrescimento illimitato. Che si sublima appunto nella forma/norma della fabbrica. E che domina il mondo dall’inizio della rivoluzione industriale, a cui siamo formattati dalla scuola, dai media, da una illusione di onnipotenza prometeica. Una razionalità che è però in evidente conflitto con la biosfera e i diritti delle future generazioni perché non accetta, per sua essenza, alcun principio di responsabilità e perché non le appartiene il senso del limite. Non bastano dunque un po’ di green economy e di resilienza. Occorre uscire – a monte – da questa (ir)razionalità. Ricordando ciò che scriveva la filosofa Simone Weil nel 1934, contestando la tesi di Marx: che cioè è la fabbrica e non la proprietà dei mezzi di produzione ad essere la causa dell’oppressione sociale – e noi aggiungiamo: dell’oppressione ambientale. (1.continua)
Lelio DEMICHELIS, docente di Sociologia economica al Dipartimento di Economia dell’Università degli Studi dell’Insubria