In strada è sempre più frequente osservare persone che parlano da sole, immobili alle fermate dell’autobus o che camminano di corsa con le mani in tasca. La causa di questo fenomeno è l’esplosione dell’uso delle cuffiette bluetooth, diventate anche uno status sociale con cuffie sempre più piccole che si nascondono alla vista e una pulizia del suono sia in entrata che in uscita sempre maggiore.
Si calcola che dal 2017 sono state vendute più di 750 milioni di cuffiette senza fili. Si passa dalle più famose AirPods della Apple alle Galaxy Buds di Samsung o a quelle di altre marche meno note, ma sicuramente più economiche.
Il confort delle cuffie senza fili si scontra però con l’impatto generato dallo smaltimento di questi prodotti. Si stima infatti che la durata media delle cuffiette di qualsiasi marca sia all’incirca di due anni e che, una volta rotti, sia praticamente impossibile ripararle e convenga quindi comprarne un paio nuove.
Nel caso di danni agli auricolari il più delle volte le case produttrici si limitano ad offrire un prodotto completamente nuovo, senza aggiustare il pezzo danneggiato. La situazione non cambia neanche affidandosi a riparatori più «amatoriali» viste le piccole dimensioni dei componenti degli auricolari e i pezzi incollati tra di loro che impediscono di aprirli per poterli aggiustare senza che siano danneggiati irrimediabilmente.
Inoltre, le cuffiette contengono numerosi metalli e componenti inquinanti (come le batterie agli ioni di litio) che spesso noi consumatori non ricicliamo correttamente, limitandoci a smaltirli nell’indifferenziato e causando in questo modo un grave danno all’ambiente, vista la grande mole di prodotti danneggiati.
Questa problematica dovrebbe spingerci ad un utilizzo più consapevole delle cuffiette e ad un maggiore approfondimento sulle modalità con le quali molte case produttrici si offrono di ritirare i prodotti non funzionanti per smaltirli e riciclare i materiali di cui sono composti.
Alessandro Manno