Nella società «datificata» sappiamo che i dati sono uno dei beni principali, essenziali ormai sotto molti e diversi profili alla vita dei consociati.
I dati sono essenziali al sistema nella sua interezza. Affinché vi possa essere un concreto ed effettivo sviluppo umano, non solo un progresso meramente tecnico, è necessario che accanto alla produzione di tecnologia e innovazione vi possa essere anche un’adeguata riflessione culturale, che supporti tanto i singoli quanto l’opinione pubblica nel gestire la trasformazione digitale e nell’individuare degli obiettivi che siano riconosciuti e riconoscibili anche come bene comune.
Affinché questo sia possibile vi è un vulnus, una ferita (ve ne sono più di una per la verità), che in qualche modo deve essere affrontata e che riguarda, appunto, i dati.
Il monopolio dei dati
Esiste un monopolio dei dati, uno dei tanti e troppi monopoli di questa rivoluzione digitale. Affinché i dati possano essere significativi è necessario, almeno sino a ora, che siano in quantità consistente. Per studiare le tecnologie che li trattano, per innovare e per creare una cultura corrispondente ci vogliono molti dati, ci vogliono dei dataset consistenti. Ma questi costano, e parecchio.
Di qui il monopolio: solo chi ha parecchie risorse è in grado di avere dataset consistenti con cui operare. I piccoli non hanno dati sufficienti. Vale per le grandi imprese, ma vale anche per le università, per il terzo settore, per qualunque portatore di interesse anche legittimo.
Senza dati possiamo dire che oggi non c’è cultura, non c’è la possibilità di avere analisi indipendenti dei prodotti tecnologici più evoluti, quelli che impattano in maniera più decisiva nelle vite delle persone e della società.
Nei sistemi democratici il controllo nei confronti degli abusi di qualunque genere è sempre stato appannaggio di settori indipendenti, ma oggi senza dati non può esistere una vera indipendenza.
La questione è stata presa in considerazione negli Stati Uniti in particolare in relazione ai dati posseduti – e utilizzati – dalle grandi imprese legate alle piattaforme social come la galassia di Facebook.
In particolare una deputata al Congresso USA ha presentato una proposta di legge che permetta l’accesso ai dataset delle grandi imprese a centri di ricerca, università e soggetti di pari caratteristiche. Vedremo come andrà a finire, rammaricandoci del fatto che si sia giunti a questo punto.
I dati sono un bene comune?
Urge però una valutazione di fondo: i dati possono essere considerati un bene comune e come tali debbono essere trattati?
È possibile immaginare una sorta di esproprio per fini di interesse pubblico di questi beni?
È possibile immaginare che i gradi monopolisti, oltre a dover pagare un’equa tassazione, debbano in qualche modo anche «pagare» una sorta di tassa culturale non in moneta, ma in risorse che possano essere conferite alla ricerca e alla cultura, come appunto sono i dati?
Queste domande possono trovare risposta solo se riconsideriamo la definizione basilare di bene, di beni comuni o di equità fiscale.
La rivoluzione digitale passa dunque anche di qui, e non si tratta di un passaggio secondario, né risolvibile in modo semplicistico.
Giuristi antronomi cercasi.