Don Peyron, nell’ultimo anno la pandemia ci ha costretti ad essere più distanti ed indotti ad essere più connessi. Forse, mai in questi mesi, Internet è entrato così prepotentemente nelle nostre vite…
Internet ha due facce: una tecnica, perché è una serie di macchine connesse attraverso dorsali oceaniche e satelliti che parlano uno stesso codice; ma è anche un ambiente in cui viviamo, ci muoviamo, studiamo, litighiamo, raccontiamo noi stessi e ascoltiamo il racconto degli altri. Queste due facce sono tra loro connesse.
Nella pandemia abbiamo assistito ad un’ipertrofia della macchina rispetto all’ambiente, perché ci ha costretto in qualche modo ad adeguarci alla tecnologia di cui disponevamo per trasformare la nostra esistenza.
Siamo stati cambiati?
Abbiamo trasformato il modo in cui andare a scuola o all’università, il modo in cui siamo stati in contatto con i nostri cari e quello con cui vivere le nostre relazioni fino a trasformare il modo con cui ci siamo sentiti Chiesa e abbiamo vissuto, ad esempio, la celebrazione dei Sacramenti. Credo che la pandemia sia stata – e in parte sia ancora – una macchina del tempo che ci ha portato 10 anni avanti. Finita la pandemia non torneremo indietro di 20 anni, probabilmente ci posizioneremo in una fase intermedia. Questo è stato uno stress test significativo del potenziale ma anche del potere della macchina rispetto all’umano. Questo è il kayrós da cogliere: da questo stress test cosa possiamo capire del futuro che abbiamo già vissuto?
Lei che risposta dà?
Abbiamo bisogno molto di più di sapienza che di conoscenza tecnica. Il vero gap che la pandemia ha evidenziato non sta solo nel fatto che alcune famiglie non avessero device o connessione. Il problema sta nella saggezza e nella sapienza con le quali si abita un ambiente. Per questo, non dobbiamo commettere l’errore di pensare che utilizzare la macchina connessa ci restituisca automaticamente la sapienza di stare in un ambiente. Non è così, anche perché la macchina non è solo più strumento ma anche agente: è un dispositivo, cioè mette in un ordine le cose. Quindi l’usarlo o non usarlo ci cambia, così come ci cambia l’esserne usati.
Questo aspetto richiama l’importanza della protezione degli utenti nella loro complessità…
Abbiamo bisogno di una doppia sicurezza. Da un lato quella tecnica, che significa strumenti inviolabili per quanto riguarda la privacy, i nostri dati, rendendo impossibile l’intromissione di soggetti terzi nelle conversazioni, lo spionaggio industriale, la manipolazione dei dati, della realtà, dei contesti. Ma poi c’è una sicurezza che va garantita a chi in questo ambiente sta con maggiori fragilità: bambini, minori, persone culturalmente meno strutturate ma anche gli immigrati digitali. Difficilmente immaginiamo che uno schermo possa nascondere un’insidia; e, se nella vita di tutti i giorni possiamo essere sospettosi, in rete lo siamo molto meno. Ma sul web quante narrazioni fittizie possono esserci!
Lo slogan che accompagna la Giornata è “Insieme per un Internet migliore”. Cosa può fare ciascuno di noi?
Può sembrare un controsenso, ma dobbiamo recuperare la corporeità. Infatti, un Internet migliore insieme è possibile se ci rendiamo conto di come sia necessario custodire, preservare e potenziare il concetto di bene comune, che esiste solo nella realtà della nostra corporeità. Soltanto una cultura del bene comune è capace, a partire dai singoli, di generare un ambiente nel quale il bene è messo in comune.
Il digitale e la tecnologia sono specchi dell’umano e soltanto nella misura in cui l’umano è consapevole di se stesso il suo specchio può restituirgli qualcosa di positivo. Illudersi di poter cambiare l’uno senza cambiare l’altro è vivere disincarnati ma questo, sappiamo, per noi è un’eresia.
Il Servizio per l’Apostolato digitale da Lei fondato su mandato dell’arcivescovo di Torino si inserisce in questa riflessione. Com’è nato e come si è sviluppato?
Abbiamo reagito ad una richiesta della Chiesa universale venuta dal Sinodo sui giovani collegandola ad un’altra richiesta esplicita che il Papa ha fatto a Firenze, nel corso del Convegno ecclesiale. Così, nell’ambito della Pastorale universitaria dell’arcidiocesi di Torino, è nato il Servizio diocesano per l’Apostolato digitale e, al suo interno, il progetto “Rerum Futura”, che mette insieme giovani cattolici, ebrei e musulmani per riflettere insieme su questi temi. L’obiettivo è duplice: capire come funziona la tecnologia e cosa questo significa per l’umanità; e portare questa riflessione all’interno della Chiesa e all’esterno la riflessione che la Chiesa fa.
Quale accoglienza avete avuto?
C’è un entusiasmo crescente, ad intra e ad extra. All’interno della Chiesa c’è evidentemente smarrimento e preoccupazione: dentro a quel cambiamento d’epoca che Papa Francesco ha narrato.
La Chiesa deve leggere i segni dei tempi e l’Apostolato digitale cerca di accompagnare la riflessione su questo ambito, ormai non più così piccolo. Anzi, dal punto di vista culturale è enorme.
La grande sfida del transumanismo è legato alla tecnologia, non ad altro.
E fuori dalla Chiesa?
Anche lì c’è lo stesso smarrimento. Ma c’è anche una predisposizione all’ascolto di ciò che la Chiesa ha da dire, del tutto inedito rispetto direi agli ultimi secoli. Questa è dunque un’ottima occasione di dialogo Chiesa-mondo, reciprocamente fecondo. In questi mesi abbiamo allacciato collaborazioni con mondi diversissimi e lontanissimi. Ed è interessante notare come sia desiderato e atteso il pensiero di chi ha alle spalle un bagaglio di teologia, filosofia e antropologia com’è il nostro.
Tornando all’ambito ecclesiale, cosa si sta muovendo?
C’è una sensibilità crescente, un fermento significativo. E anche una piccola conversione, nel senso che abbiamo sempre relegato Internet alle Comunicazioni sociali. Non si tratta solo del sito web parrocchiale o della pagina della parrocchia su Facebook, c’è molto di più. Perché Internet non è soltanto social network, è anche Intelligenza Artificiale, Internet delle cose, blockchain. Alcuni giorni fa, la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha detto che “il futuro digitale dell’Europa è racchiuso in due parole: dati e intelligenza artificiale”. Se questo è, le radici cristiane dell’Europa dove si giocano? Forse si giocano molto più in questi contesti, in questi assetti, nelle relative normative e negli investimenti che non in convegni sulle radici cristiane dell’Europa.
Una bella sfida…
La Chiesa dev’essere “Mater et Magistra”. Non può essere solo maestra. Ed essere madre vuol dire essere generativa: di uno sguardo, di una prospettiva, di una progettualità, di un orizzonte.
Non possiamo aspettare che le cose accadano per poi giudicare se sono buone o cattive. Questo è il tempo in cui la Chiesa deve darsi da fare perché accadano cose buone.
Perché, nel momento in cui accadono cose cattive, il giudizio su quanto avvenuto spesso è tardivo, inefficace, inefficiente e non molto ascoltato.