Linguaggio digitale e linguaggio religioso, la rottura dei confini?

È dubbio che il crescente ruolo dei mezzi tecnologici in ogni ambito della nostra vita determini, come alcuni pretendono, una vera e propria mutazione antropologica, che separerebbe drasticamente la forma mentis delle nuove generazioni da quelle anteriori. In realtà, come è noto il concetto di nativi digitali è stato messo in discussione e smantellato forse definitivamente da analisi severe (una fra tutte, quella di Roberto Casati Contro il colonialismo digitale, Laterza). Esse hanno portato alla luce piuttosto alcuni cambiamenti d’abitudine, non necessariamente salutari, che veri sconvolgimenti cognitivi. Modifiche superficiali, anche quando sembrano profonde, di antiche e radicate inclinazioni. Tra esse, non mancano quelle – solo in apparenza lontane dall’universo digitale – di una spiritualità quasi residuale e deteriore, nutrita di tic linguistici attinti anche al vasto territorio che unisce misticismo, superstizione e pratica devozionale.

Penso all’impiego, nel discorso pubblico sulla tecnologia, di un frasario attinto alla sfera religiosa, o simile al linguaggio tradizionale dell’ambito religioso: questione ancora poco studiata, a quanto so, da chi osserva professionalmente le vicende linguistiche dei nostri tempi. Ma meritevole d’attenzione. Ecco dunque il presente tecnologico spesso descritto come un’età di svolta epocale, un punto di non ritorno e quasi l’alba di un’età nuova, incommensurabile con quella precedente e perciò simile a uno spartiacque della storia: un anno zero. Significativa è la traiettoria della parola innovazione, passata dal significato neutro di ‘novità’ (o addirittura ‘ciclico rinnovamento’: nel Medioevo, era termine che poteva applicarsi alle fasi della luna, che è nuova per qualche giorno ogni mese) a quello nettamente connotato di rinnovamento irreversibile di costumi, processi e metodi secondato dalla svolta digitale. Un po’ come accade alla buona novella dell’Evangelo, l’innovazione oggi onnipresente è vestita di un termine che, con materiale vecchio, cerca di esprimere una situazione inaudita, dirompente nei suoi effetti, frutto di menti visionarie, qualifica spesso attribuita a profeti e predicatori di Tedx. Sono segnali di un rapporto ambiguamente religioso con la tecnologia, che lascia anche altre tracce. All’alba dei fasti della Silicon Valley una rampante intrapresa informatica sceglieva di chiamarsi Oracle, cioè ‘oracolo’: un brand misticheggiante, che s’accosta a etichette come quella di «età dell’oro», lungamente associata a profezie religiose («I am redit et virgo…»), e oggi applicata all’era della trasformazione digitale (con Nuova età dell’oro si traduceva in Italia, solo due anni fa, il titolo Age of Discovery di Ian Goldin e Chris Kutarna, un libro sulla New Renaissance, il ‘nuovo rinascimento’ in cui vivremmo oggi, senza neanche accorgercene).

Il cammino di redenzione, proprio come le tappe della storia biblica, procede non per semplici fasi ma per ominose generazioni. Se, come pare, con le reti di telecomunicazione siamo alla quinta, la strada è ancora lunga per raggiungere la perfetta ciclicità delle quattordici adombrata nel Vangelo di Matteo. Ma il progresso tecnologico consente una marcia rapidissima, per cui l’obiettivo non è poi così lontano. Intanto, la denominazione ambigua – e invero infelice – di intelligenza artificiale dialoga manifestamente con termini consueti in certe forme di religiosità dei nostri giorni (da intelligenza superiore a disegno intelligente, cioè intelligent design: formule che legano il concetto d’intelligenza direttamente a quello di divinità). Un’età che va perdendo ogni speranza nell’eternità della Salvezza, ne reimpiega il lessico («Save us O Lord») alla ricerca di qualche forma effimera di salvataggio (save and log out). L’operazione è certo meno escatologicamente impegnativa di quelle finora disponibili, ma naturalmente promessa (o almeno annunciabile) a tutti. Religiosità appunto superstiziosa più che vera religione, quella adombrata dal discorso odierno sulla tecnologia non richiede, crucialmente, alcuna vera fede: basta un po’ di fedeltà senza fili, Wi(reless)- fi(delity) per giungere all’aldilà fasullo offerto dalla realtà virtuale in cui una madre, solo pochi mesi fa in Corea, ha potuto incontrare, con caschi e sensori, l’ologramma parlante di una figlia morta. Più che un nuovo paradiso, un purgatorio pigramente reloaded.

Lorenzo TOMASIN Università di Losanna

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